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Ma già s'imbianca e indorasi
Il balzo d'Oriente (1)

Già l'umid' ombre fuggono
Innanzi al sol nascente.

Le stelle già si celano

In faccia al nuovo albore, (2)
Già Febo il capo fulgido (3)
Erge dall' onde fuore,

Della superba Lucciola
Allor che fu? disparve
Ogni bellezza equivoca,
E sol qual era apparve.

Piccolo insetto sordido.
Allora fu veduto,

Che d'uopo (4) ha delle tenebre

Per esser conosciuto.

Voi che d'un falso merito

Talor vili impostori
Brillate in faccia a' semplici
Ignari ammiratori:

(1) Balzo d'Oriente, la parte Orientale dell' Orizzonte. (2) Quello splendore bianco del cielo, che apparisce quando si par

tono le tenebre della nose.
(3) Fulgido, risplendente,
(4) Uopo, bisogno,

Voi che fra gente stupida
Nel bujo risplendete,
Che il Sole alfin discoprasi

Sopra di voi temete.

LORENZO PIGNOTTI.

LUCREZIA.

Si biasima il fatto di Lucrezia.

In van resisti, un saldo core, e fido

Tu vanti in vano, e sia pur ghiaccio, osmalto: Renditi alle mie voglie, o quì t' uccido;

Disse Tarquinio colla spada in alto.

Nè sola te, ma te col servo ancido; (1)
E poi dirò, che in amoroso assalto
Ambo vi colsi: alzò la donna un grido :
Giove.... ma non udía (2) Giove dall' alto.
Ella dopo il fatale aspro periglio

Che fe'? s'uccise, e nel suo sangue involta
Spirò, ma con improvido consiglio.
Rendersi al fallo, e poi morir non basta.
Pria morir, che peccare. Incauta, e stolta
Ebbe in pregio il parer, non l' esser casta.
GIOVAN-BATTISTA ZAPPI.

(1) Ancido, in prosa dicesi (2) Udía per udiva. più comunemente uccido.

72

Si scusa Lucrezia.

Che far potea la sventurata, e sola
Sposa di Collatino in tal periglio?
Pianse, pregò; ma in vano ogni parola
Sparse, in vano il bel pianto uscì dal ciglio. (1)
Come a Colomba, su cui pende artiglio,
Pendeale il ferro in sull' eburnea (2) gola:
Senza soccorso, oh Dio, senza consiglio
Che far potea la sventurata, e sola?
Morir, lo so, pria che peccar dovea;

Ma quando il ferro del suo sangue intrise (3)
Qual colpa in se la bella donna avea?
Peccò Tarquinio, e il fallo ei sol commise
In lei; ma non con ella; ella fu rea
Allora sol, che un' innocente uccise.

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E in virile fierezza atti soavi,

Senno, e virtù, che i folli esempj e pravi (2) Sprezza, e le voci di ragion sol ode; Sensi di vero onor, che i fasti gode

Emular sì, non millantar degli Avi,

E non dall' arche (3) di molt' oro gravi,
Ma dal nobile oprar cerca la lode;
Indole egregia, e d'alto ingegno acume (4),
Che a pure fonti di dottrina bebbe
Ricco tesoro, e di gentil costume;

Questo è lo Sposo, che il tuo cor richiede,
Questo, che ai pregi, e a tua virtù si debbe,
Questo, che in dono a poche il ciel concede.

(1) Questi sonetti furono composti per le nozze del Signor Conte Niccolò Da Rio con la Signora Marchesa Anna de' Lazzara seguite in Padova, l'an

no 1795.

(2) Pravi, iniqui, malvagi. (3) Arca, cassa, cofano. (4) Acume, acutezza.

G

Il Ritratto della Sposa presentato allo Sposo. Della tua Sposa, il so, l'effigie è questa, Che il volto imita d' ogni grazia carco (1); Ma in lei non tutto il guardo tuo s'arresta, Benchè non sazio in vagheggiarla o parco. Tu ne' begli occhi, che di luce onesta Ardono sotto nero e sottil arco,

Tu nella faccia amabile e modesta,
Quasi per vetro, che alla vista è varco (2),
L'immagine dell' anima contempli

Già disegnata dal divin Pittore,
Poscia abbellita dai materni esempli,
Che a riuscire in sua beltà perfetta
Gli estremi tratti e l'ultimo colore

Dall' amor tuo,

da' tuoi consigli aspetta.

La Dote.

No i ricamati in or serici ammanti (3),
O i ricchi lini, batavo lavoro,

E non le gemme, oriental tesoro,
Sul biondo crine, e nel tuo sen brillanti;
Nè i preziosi arredi (4), o i doni tanti,
Ond' è ricca tua man, ď argento e d'oro;
Nè quel d' avita (5) nobiltà decoro;
Che da' remoti secoli tu vanti;

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