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Mio ben non cape (1) in intelletto umano;
Te solo aspetto; e quel che tanto amasti,
E laggiuso (2) è rimaso, il mio bel velo (3).
Deh perchè tacque, ed allargò la mano?
Ch' al suon de' detti sì pietosi, e casti
Poco mancò ch' io non rimasi in Cielo.

Il medesimo.

LIBERTA.

Era di Filli al cor dolce ristoro
Un canario gentil a lei diletto,

Che mostrava col canto aver

nel

petto

Di musici concenti un nobil coro.

Di man fuggille, e sopra un verde alloro
Volò, che di sua traccia avea sospetto :
Ratto (4) poi s' inoltrò dentro un boschetto
Lieto cantando l' augellin sonoro.
Quand' ecco un cacciatore in quell' istante
Ferillo, e quasi a lui chiedesse aita,
Svolazzando al suo piè cadde spirante.
Dolente il prese, e disse: ecco finita
Tua libertate. Ahi quante volte, ahi quante
troppa libertà costa la vita!

La

GIOVANNI BATTISTA CATENA.

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Uom, ch' al remo è dannato, egro, e dolente Co' ceppi (1) al piè, col duro tronco in mano, Nell' errante prigion, chiama sovente

La libertà; benchè la chiami in vano. Ma, se l' ottien ( chi'l credería ? ) (2) si pente D'abbandonar gli usati ceppi, e insano La vende a prezzo vil. Tanto è possente Invecchiato costume in petto umano. Cintia, quel folle io son. Tua rotta fede Mi scioglie, e pur di nuovo io m' imprigiono Da me medesmo (3) offrendo ai lacci il piede. Io son quel folle; anzi più folle io sono,

1

Perchè, mentre da te non ho mercede,
Non vendo io no la libertà, la dono.
GIOVAN-GIUSEPPE FELICE ORSI.

Libertà, dolce, e desiato bene,

Mal conosciuto a chi talor nol perde;
Quanto gradita al buon mondo esser dei!
Da te la vita vien fiorita, e verde;
Per te stato giojoso mi mantiene,
Ch' ir (4) mi fa somigliante agli alti Dei.
Senza te lungamente non vorrei
Richezze, onor', e ciò ch' uom più desia:
Ma teco ogni tugurio acqueta l' alma.

FRANCESCO PETRARCA.

nel

(3) Medesmo per medesimo (4) Ir per ire, cioè andare,

(1) Ceppo, strumento quale si serrano i piedi ai prigioni. (2) Credería per crederebbe. |

F

LA LIBERTÀ A NICE.

Grazie agl' inganni tuoi,
Alfin respiro, o Nice,
Alfin d'un infelice

Ebber gli Dei pietà.

Sento da' lacci suoi,

Sento che l'alma è sciolta :

Non sogno questa volta,
Non sogno libertà.

Mancò l'antico ardore,

E son tranquillo a segno,
Che in me non trova sdegno
Per mascherarsi amor.

Non cangio più colore,

Quando il tuo nome ascolto
Quando ti miro in volto
Più non mi batte il cor.

Sogno, ma te non miro
Sempre ne 'sogni miei.
Mi desto, e tu non sei
Il primo mio pensier.

Lungi da te m' aggiro

Senza bramarti mai :
Son teco, e non mi fai
Nè pena, nè piacer.

Di tua beltà ragiono,
Nè intenerir mi sento:
I torti miei rammento
E non mi so sdegnar.

Confuso più non sono,
Quando mi vieni appresso:
Col mio rivale istesso
Posso di te parlar.
Volgimi il guardo altero,
Parlami in volto umano;
Il tuo disprezzo è vano,
È vano il tuo favor:

Chè più l'usato impero

Quei labbri in me non hanno;
Quegli occhi più non sanno
La via di questo cor.

Quel, che or m' alletta, o spiace,

Se lieto, o mesto or sono,

Già non è più tuo dono,
Già colpa tua non è.
Chè senza te mi piace

La selva, il colle, il prato:
Ogni soggiorno ingrato
M'annoja ancor con te.
Odi, s' io son sincero
Ancor mi sembri bella;

Ma non mi sembri quella;

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Quando lo stral spezzai,
Confesso il mio rossore,
Spezzar m' intesi il core,
Mi parve di morir.

Ma per uscir di guai, (1)
Per non vedersi oppresso
Per racquistar se stesso,
Tutto si può soffrir.

Nel visco, in cui s'avvenne
Quell' augellin talora;

Lascia le penne ancora

Ma torna in libertà.

Poi le perdute penne,
In pochi dì rinnova,
Cauto divien per prova,
Nè più tradir si fà.

Sò, che non credi estinto
In me l'incendio antico,
Perchè sì spesso il dico,
Perchè tacer non sò,

(1) Guai, pene.

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