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UGOLINO (MORTE DEL CONTE.) (1)

La bocca sollevò dal fiero pasto
Quel peccator, forbendola a' capelli
Del capo ch' egli avea diretro (2) guasto ;
Poi cominciò : tu vuoi ch' io rinnovelli

Disperato dolor, che 'l cuor mi preme,
Già pur pensando, pria ch' io ne favelli.
Ma se le mie parole esser den (3) seme,
Che frutti infamia al traditor ch' io rodo,
Parlare e lagrimar mi vedrai insieme.
Io non so chi tu se' (4), nè per che modo
Venuto se' quaggiù; ma Fiorentino

Mi sembri veramente, quand' io t' odo.
Tu dei saper ch' io fui 'l Conte Ugolino,
E questi l'Arcivescovo Ruggieri:

Or ti dirò, perch' i' son tal vicino.
Che per l'effetto de' suo' ma' (5) pensieri
Fidandomi di lui io fossi preso,

E poscia morto, dir non è mestieri.

(1) Il conte Ugolino de' torre della fame. Gherardeschi di Pisa resosi pa'drone di Pisa, fu poi tradito dall' arcivescovo Ruggieri, e fatto morir di fame in una torre detta Muda, e poscia

(2) Diretro, di dietro.

(3) Den per denno ; cioè devono.

(4) Se', sei.

(5) Suo' ma' per suoi mali,

Per quel che non puoi avere inteso,
Cioè come la morte mia fu cruda
Udirai, e saprai, se m' ha offeso.
Breve pertugio dentro dalla Muda,

La qual per me ha il titol della fame; E'n che conviene ancor ch' altri si chiuda, M' avea mostrato per lo suo forame

Più lune già ; quand' io feci 'l mal sonno, Che del futuro mi squarciò il velame. Questi pareva a me maestro e donno (1),

Cacciando il lupo, e i lupicini al monte Perchè i Pisan veder Lucca non ponno (2), Con cagne magre, studiose, e conte Gualandi con Sismondi, e con Lanfranchi S' avea messi dinanzi dalla fronte.

In picciol corso mi pareano stanchi

Lo padre e i figli, e con l'agute scane (3) Mi parea lor veder fender li fianchi. Quand' io fui desto innanzi la dimane, Pianger senti' fra 'l sonno i miei figliuoli, Ch' erano meco, e dimandar del pane. Ben se' crudel, se tu già non ti duoli, Pensando ciò, ch' al mio cuor s'annunziava: E se non piangi, di che pianger suoli?

(1) Donno, signore, padrone. (3) Scane, zanne, (2) Ponno per possono,

Già eran desti, e l' ora s' appressava,
Che 'l cibo ne soleva esser addotto,
E per suo sogno ciascun dúbitava.
Ed io senti' chiavar l' uscio di sotto

All' orribile torre: ond' io guardai
Nel viso a' miei figliuoi (1) senza far motto:
Io non piangeva, sì dentro impietrai (2);
Piangevan elli (3); ed Anselmuccio mio
Disse tu guardi sì, padre: che hai ?
Però non lagrimai, nè rispos' io

Tutto quel giorno, nè la notte appresso,
Infin che 'l altro sol nel mondo uscío (4).
di raggio si fu messo

Come un poco

Nel doloroso carcere, ed io scorsi
Per quattro visi il mio aspetto stesso;
Ambo le mani per dolor mi morsi;

E quei pensando, ch' io 'l fessi (5) per voglia
Di manicar (6), di subito levorsi (7),
E disser padre, assai ci fia men doglia,
Se tu mangi di noi tu ne vestisti
Queste misere carni, e tu le spoglia.
Quetàmi (8) allor, per non fargli più tristi;
Quel dì e l'altro stemmo tutti muti:
Ahi dura terra, perchè non t' apristi?

(1) Figliuoi per figliuoli.
(2) Impietrare, divenire co-
me pietra.

(3) Elli per eglino.
(4) Uscio per uscì,

(5) Fessi per facessi.
(6) Manicare, mangiare.
(7) Levorsi per si levarono.
(8) Quetàmi per mi quetai.

Posciachè fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a' piedi,
Dicendo, padre mio, che non m' aiuti?
Quivi morì; e come tu mi vedi,
Vid' io cascar li tre ad uno,
ad uno,

Tra 'l quinto dì e 'l sesto : ond' io mi diedi Già cieco a brancolar sovra ciascuno,

Etre dì gli chiamai, poichè fur (1) morti: Poscia, più che 'l dolor, potè 'l digiuno. Quand' ebbe detto ciò, con gli occhi torti Riprese teschio misero co' denti, Che furo (2) all'osso, come d'un can,

forti.

Dante.

(1) Fur per furono.

(2) Furo per furano.

IL FIN E.

Nella Stamperia di G. EBERHART,

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