Di nuovo il bacia, e nel materno grembo Ripone il figlio, ella sel (1) guarda, e stringe Con tristo gaudio, e un tenero sorriso Spunta su gli orli al lagrimoso sguardo. A si dolce spettacolo pietoso
Ondeggia Ettòr tra varj affetti, alfine Fatto (2) più fermo, assai le dice, o cara, Diessi (3) a natura, omai cessa col pianto Di turbar la mia speme. Alfin ripensa Che trarmi a morte anzi.(4) il voler del fato Forza umana non può, che in tetto o in campo Tutti del paro un fatal punto attende. Sia che può dunque, ed il dover si compia. Torna agli usati uffizj, io là m' affretto Dove il mio mi rappella, addio, rammenta Che sei moglie d' Ettòr, di me più degna Ti renda il tuo coraggio: il fulgid' elmo Riprende, e frettoloso indi si toglie. Resta la sposa senza moto, e pende Col cor sui passi del suo caro ei sparve; Lenta lenta s' avvia, ma spesso indietro Torna col guardo: alfin muta dolente Giunge alla regia stanza, accorron, tosto L'ancelle uffiziose, il mesto aspetto
Della sposa regal diffonde in tutte Alta e cupa tristezza, e a lei mirando D' Ettòr vivente per istinto ignoto Ogni volto, ogni cor, piange la morte.
Traduzione di Cesarotti.
SIMULAZIONE.
Cesare poi che 'l traditor d' Egitto Gli fece il don dell' onorata testa Celando l'allegrezza manifesta
Pianse per gli occhi fuor, siccome è scritto; Ed Annibál, quand' all' imperio afflitto Vide farsi fortuna sì molesta,
Rise fra gente lacrimosa, e mesta
Per isfogare (1) il suo acerbo despitto: (2) E così avvien, che l' animo ciascuna Sua passion sotto 'l contrario manto Ricopre con la vista or chiara, or bruna. Però, s'alcuna volța i̇' rido, o canto;
Facciol (3) perch' io non ho se non quest' una Via da celare il mio angoscioso pianto
FRANCESCO PEtrarca,
(1) Isfogare per sfogare. | (3) Facciol per lo fa.
(2) Despitto per dispetto.
Solitario bosco ombroso, A te viene afflitto cor, Per trovar qualche riposo Nel silenzio, e nell' orror. Ogni oggetto ch' altrui piace Per me lieto più non è: Ho perduto la mia pace, Sono io stesso in odio a me. La mia Fille, il mio bel foco Dite, o Piante, è forse quì? Ahi la cerco in ogni loco; E pur so ch' ella partì. Quante volte, o fronde amate, La vostr 'ombra ne (1) coprì! Corso d' ore si beate
Quanto rapido fuggì!
Dite almeno, amiche fronde, Se il mio ben più rivedrò. Ahi che l'eco mi risponde, E mi par che dica no.
Sento un dolce mormorìo,
Un sospir forse sarà ; Un şospir dell' idol mio
Che mi dice, tornerà.
Ahi ch'è il suon del rio, che frange (1) Tra quei sassi il fresco umor, (2) E non mormora, ma piange Per pietà del mio dolor. Ma se torna, fia (3) poi tardo
Il ritorno, e la pietà;
Chè pietoso in van lo sguardo Sul mio cener piangerà.
Giace in Arabia una valletta amena, Lontana da cittadi, e da villaggi
Che all'ombra di duo (4) monti è tutta piena D'antichi abeti e di robusti faggi,
Il sole indarno il chiaro dì vi mena, Che non vi può mai penetrar co' raggi, Si gli è la via da' folti rami tronca, (5) E quivi entra sotterra una spelonca.
(1) Frange, rompe. (2) Umore, acqua, onda, (3) Fia, sarà.
Sotto la negra selva una capace
E spaziosa grotta entra nel sasso, Di cui la fronte l' edera seguace Tutta aggirando va con torto passo. In questo albergo il grave sonno giace. L' Ozio, da un canto, corpulento e grasso; Dall' altro, la Pigrizia in terra siede, Che non può andare, e mal reggesi in piede. Lo smemorato obblío sta sulla porta :
Non lascia entrar, nè riconosce alcuno; Non ascolta imbasciata, nè riporta, E parimente tien cacciato ognuno. Il silenzio va intorno, e fa la scorta: Ha le scarpe di feltro, e il mantel bruno; Ed a quanti ne incontra, di lontano,
Che non debban venir, cenna (1) con mano.
ARIOSTO. Canto 14. Stanza 92.
Oh sonno, oh della cheta, umida, ombrosa Notte placido figlio: oh de' mortali Egri conforto, obblío dolce de' mali Sì gravi, ond 'è la vita aspra, e nojosa ;
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