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DELLA VÍTA

DI FRANCESCO PETRARCA

(1) Voi forse potete aver udito parlar

qualche cosa di me, benchè anche questo sia dubbio, se il mio nome piccolo ed oscuro sia per giugnere ad alcuna distanza o di luoghi o di tempi. Voi pur forse desidererete di sapere che uomo io mi sia stato, e quale stato sia il successo delle opere mie, massimamente di quelle, delle quali la fama è a voi pervenuta, o di quelle che avete sentito appena nominare. E quant'è al primo, certamente saranno varie le voci degli uomini; perciocchè facilmente ognuno parla così, come lo move, non la verità, ma il proprio suo piacimento; e niuno suol porre modo o alla lode od al biasimo. Della vostra schiatta io fui, un uom mortale, di poco pregio, e di famiglia antica, d'origine veramente, come di sè ha detto Cesare Augusto, nè grande, nè vile. Ben fu da natura l'animo mio buono e verecondo; se non che m'ha nociuto la contagiosa usanza. L'adolescenza m'ingannò, la gioventù mi rapì seco; ma la vecchiezza m'ha corretto, e m'ha insegnato coll'esperienza essere vero ciò che lungo tempo in

nanzi io avea letto, che l'adolescenza e 'l piacere sono cose vane; anzi non la vecchiezza, ma Quegli che tutte l'età e i tempi ha fatto, il quale lascia alcuna volta i miseri mortali, gonfii del lor nulla, errare, acciocchè almeno in sul finir della vita, sovvenendosi de' loro falli, riconoscano sè medesimi.

Da giovane il mio corpo non ebbe grandi forze, ma pur ebbe molta destrezza; non forme eccellenti, di che non mi glorio, ma pur tali, che potevano ne' più verdi anni piacere. (2) La canutezza, la quale, benchè rara, apparve già da' primi anni, io non so come, in sul mio capo giovanile; e la quale, essendomi sopravvenuta insieme colla prima lanugine, avea per gli imbiancati capelli una certa non so qual dignità, come dissero alcuni, ed insieme aggiugnea alle fattezze del mio volto ancor tenero non lieve ornamento; ella pur nondimeno m'era spiacevole, perchè all'aspetto mio giovanile, di cui molto io mi compiaceva, almeno in quella parte opponevasi. (3) Io ebbi vivo il colore, infra 'l bianco e 'l bruno, gli occhi vivaci, e la vista per lungo tempo acutissima; la quale, fuori della mia aspettazione, mi mancò dopo il sessantesimo anno della mia età, così che, mio mal grado, mi convenne ricorrere a' visuali ajuti. Venne la vecchiezza; e sopra il mio corpo, per tutta l'età mia sanissimo, trasse l'usato multiplice stuolo delle infermità che l'accompagnano.

(4) Ora sappiate, e il sappiano quelli, se ve ne saranno, i quali non abbiano a schifo

di sapere l'umile mia origine, che io nell'anno di quest'ultima età, che ha tratto il principio ed il nome da Gesù Cristo, per lo quale e nel quale io spero, nell'anno, dico, mille trecento quattro, a'di venti di Luglio in lunedì, in sul far dell'aurora, nella città d'Arezzo, nel borgo, come dicono, dell' Orto, (5) esule io nacqui da parenti onesti, di fiorentina origine, di fortuna mediocre, ed inclinata, a dire il vero, a povertà, ma dalla patria loro cacciati. (6) Io non fui mai nè molto ricco, nè molto povero. Tale è la natura delle ricchezze, che, crescendo elle, più ne cresca la sete, e più la povertà; la qual cosa però mai non mi fe povero. Come più ebbi, meno desiderai; e come più abbondai, fu maggiore la tranquillità della mia vita, e minore la cupidità dell'animo mio. E ben mi fo a credere che sarebbemi forse altramente avvenuto, s'io avessi avute grandi ricchezze. Forse così, come altri, le soverchie ricchezze mi avrebbono vinto. (7) Io le disprezzai altamente, non perchè non le stimassi, ma perche io ne abborriva le fatiche e le cure, compagne loro inseparabili; e non perchè in sè la facoltà del far laute mense fosse pena e travaglio. Tenue vitto io usai e cibi volgari più lietamente, che non hanno fatto con le loro squisite vivande i successori tutti di Apicio. I conviti, i quali, benchè si chiamino con questo nome, pur veramen te sono gozzoviglie, nemiche della modestia e de'buoni costumi, sempre mi dispiacquero; e stimai perciò cosa faticosa ed inutile l'invitare altri a questo fine, e pari

mente l'essere da altri invitato. Ma lo stare a mensa insieme cogli amici mi fu cosa si dolce, che quando alcuno me ne sopravvenne, io l'ebbi assai caro; nè mai, volendolo io, senza compagnia presi cibo.

Che niente poi abbia potuto in me il diletto de'sensi, il vorrei poter dire; ma s'io il dicessi, mentirei: pure dirò securamente, che, quantunque il calor dell'età e della mia complessione a quello mi traesse, nondimeno sempre con l'animo n'esecrai la viltà. Nella mia adolescenza sostenni le pene di amore fierissimo, ma unico ed onesto; e più lungo tempo le avrei sostenute, se morte, acerba sì, ma utile, non avesse estinto quel fuoco che già cominciava ad intiepidire. (8) Io amai una donna, la cui mente, di terrene cure non conoscitrice, ardeva di celesti desiderii: nel volto della quale, se v'è punto di vero nel mondo, rilucevano i raggi della divina bellezza; i costumi della quale erano esempio di perfettissima onestà; della quale nè la voce, nè la forza degli occhi, nè il portamento mostravano umana cosa o mortale. Dirò tutto in brieve. (9) Laura apparve la prima volta agli occhi miei nel primo tempo della mia adolescenza, nell'anno del Signore mille trecento ventisette, il giorno sesto di Aprile, in sul mattino, nella chiesa di santa Chiara in Avignone; e nella medesima città, nel mese medesimo di Aprile, nel medesimo giorno sesto, nella prima ora medesima, nell'anno poi del Signore mille trecento quarantotto, da questa luce quella luce fu tolta, mentre per avventura io

era allora in Verona, ignaro, oimè, del mio destino. Ebbi di poi in. Parma l'infelice novella per lettere del mio Lodovico, nell'anno medesimo, nel mese di Maggio, nel mattino del dì diciannove. Il castissimo e bellissimo corpo di lei nello stesso di della morte in sul vespro fu riposto in acconcio luogo de' frati minori; e l'anima sua, io mi do a credere che, come Seneca disse dell'Africano, nel cielo, ond'ella era, sia ritornata. (10) La virtù di Laura io amai, la qual non è spenta; nè però io posi l'animo mio in cosa mortale, ma io presi il mio compiacimento nell'anima di lei, sovrumana ne' suoi costumi; il cui esempio m'è argomento del modo onde vivono gli abitatori del cielo. (11) Nel mio amore non fu niuna cosa turpe, niuna oscena, niuna, se non fosse stato eccessivo, colpevole. Anzi questo io non taccio, che io, di quel poco ch'io sono, tale mi sono per quella donna; e che, se ho pur qualche fama o gloria, a ciò non sarei mai pervenuto, se la sementa tenuissima di virtù, che la natura avea posto nell'animo mio, ella non l'avesse coltivata con si nobili affetti. Si, ella distolse, e, come dicono, con l'uncino ritrasse l'animo mio giovenile da ogni turpitudine, e di affisarsi il costrinse nelle cose celesti. E non è egli certo che negli amati costumi amore trasforma gli altrui? Ma non fu mai alcun maledico si mordace, che con parole pungenti toccasse punto la fama di lei; che osasse dire di aver veduto in lei, non dico negli atti, ma neppur ne' movimenti della voce, alcuna cosa reprensibile.

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