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E

Il bianco con il bruno
Si fa chiamar balzano:
pur di mano in mano
Ne va la gatta in sacco.
Colui che vuol buon bracco,
Lo gastighi a buon'ora.

Nè suocera, nè nuora
Non si volson mai bene.
Colui riman con pene,
A chi l'ingrato serbe. (1)
Fiamma che tien del verde,
Niente può durare.

Fra compare e comare
Non s'usa prestar staccia: (2)
E mal si cuoce l'accia,
Io dico senza cendere. (3)
Quel che non ha da spendere
E molto mal veduto.

Colui non trova ajuto,
Che non può render cambio.
Mulo che porta d'ambio

(1) Serbe, cioè serve, per isforzo di rima (*), come nella Frottola dello stesso Petrarca (ved. pag. 355. v. 9) si trova civo per cibo.

(2) Staccia in luogo forse di staccio, e per solo effetto della rima.

(3) Cendere per cenere è voce rimasa soltanto

nel contado.

(*) Si osservi però che le voci serbe e verde non rimano fra loro.

È dolce cavalcare.

Sai quel che si vuol fare?
Stiamo ad udir se piove.
Le cinque vaglion nove
A chi sa sofferire.

E troppo grande ardire
Si debbe biasimare.

Sonetto tratto da un codice Trivulziano.

Antonio, cose fatte ha la tua terra,
Ch'io non credeva che possibil fosse:
Ch'ella le chiavi del mio core smosse,
Ed aperta ha la via che ragion serra.
Onde il signor che mi solea far guerra,
Celatamente entrando, mi percosse
Da due begli occhi sì, che dentro all'osse
Porto la piaga, e'l tempo non mi sferra;
Anzi m'affligge e lasso, per vergogna,
Di domandar della cagion del duolo;
Nè trovo con cui parta i pensier miei.
Ma come quei che novo pensier sogna,
Se di subito è desto; io così solo
Torno a pensar chi può esser costei.

Questo Sonetto, attribuito al Petrarca, leggesi anche nel codice Isoldiano, ricordato dal Crescimbeni (Coment. ec. tom. 3. pagina 179, edizione veneta), ove si legge anche la risposta di maestro Antonio da Ferrara, cui il presente Sonetto è indi

rizzato.

It Redi nelle Note al suo Ditirambo, pagina 17 (edizione del 1685), trattando dei Sonetti di sedici versi, ne ricorda uno del Petrarca in risposta a maestro Antonio da Ferrara, che leggevasi in un antico testo a penna esistente presso lo stesso Redi, e di cui riporta i soli primi seguenti versi:

Perchè non cada nelle oscure cave,
Dove l'animo tuo par che vacille,
Piacemi di prestarti alcune stille
Di mio secreto fonte più söave.

Il Crescimbeni ne' Comentarii ec. (vol. 2. parte 2. pag. 128, edizione veneta) riporta il seguente Sonetto di Cecco d'Ascoli, scritto in risposta ad altro del Petrarca, che incomincia: Tu sei 'l grande Ascolan, che l mondo allumi; e il quale trovasi in un antico codice, allora posseduto dal dott. Giuseppe Isoldi in Roma.

spero

Io solo son ne' tempestosi fiumi,
E rotte son le vele del mio legno;
Non
di salute omai più segno,
Chè 'l tempo ha varïati li costumi.
Di grande altezza vengono i gran tumi; (*)
D'estremo riso vien pianto malegno:
Non è fermezza nel terrestre regno,
Passando gli atti uman siccome fumi.

(*) Tumi, cioè tomi, cadute.

La guida che fu mia senza sospetto,
Col dolce inganno fatto m'ha infelice,
E vo träendo guai sotto il suo velo.
Di lagrime e sospiri sì. m'aggielo,

Che più non son quel Cecco che tu dice,
Avvegna che somigli lui in aspetto.

Nel N. II. e X. del Giornale enciclopedico di Firenze dell'anno 1809 si pubblicarono dal ch. Prof. Ciampi otto Sonetti ineditį attribuiti al Petrarca da un codice di Rime antiche; e quantunque non sembrano essi per lo stile degni della penna di sì gran maestro, si riportano tuttavia qui per intiero, avvertendo che l'ultimo Sonetto, che incomincia "Perduto ho l'amo omai, la rete e l'esca,» fu stampato come inedito dall'ab. Fiacchi nella Scelta di Rime antiche da lui pubblicate in Firenze nel 1812, e leggesi qui sopra a carte 380.

O chiara luce mia, dove se' gita?
O dolce sguardo, o parlamento umile,
O corpo glorioso, alma gentile,
Perchè si tosto se' da me partita?
O amore, conforto di mia vita,
Onorata alma di pietoso stile,

Ove son quelle membra in cui più vile Gli altri avanzavi di virtù infinita? Veggole in terra sparse, e girsi via,

E noi lasciare, ed ir là fra gli Dei
Col nome suo che tanto il mondo onora.
Oimè sua morte! oimè la vita mia!

Che farò io tristo? Ah! gli occhi miei
Di pianto non saranno stanchi un'ora.

VOL. I.

17

Quanto infelice si può dir colui

Che elegge, in libertà, di farsi servo;
E che diventa contro se protervo,
Da avvilir sè per far maggiore altrui;
E per cosa che è dannosa a lui

E

spesse

cui!

Corre alla morte, come in caccia cervo; E che del proprio ben non fa riservo, volte avvien Dio il sa per Questo è lo sventurato pien d'errore, Che sottomette la ragione a' sensi, E perde sè per seguitare Amore; Che mostra sol colui servir conviensi, Mostrando il frutto suo sotto colore Piacente al senso, con difetti immensi.

Per selve ne vo'gir, tra selve e faggi, Per ginepri, olmi, bossi, lecci e ontani, Per antri, tombe, e luoghi più silvani, Sicchè del Sole non vegga più i raggi; Dove non senta più umani saggi:

E lassar vo' tutti i piacer mondani,
Nè giammai mirar voglio i corpi umani,
Dappoichè Amor'mi ha fatto tanti oltraggi
E finchè il corpo mio si spezzi e schianti,
Quale assalito toro entro mugghiando,
E vo' mia vita in fera trasmutare;
Perch'io ho contro i suoi occhi santi,

E da' lor santi lumi avuto ho bando,
E non posso da te grazia impetrare.

Qual felice, celeste e verde pianta

Fêr mo si fresche

porpore e viole? Qual leggier pioggia o qual benigno Sole Produssero al suo fine opera tanla?

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