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Per che inchinar a Dio molto convene
Le ginocchia e la mente,

Che gli anni tuoi riserva a tanto bene.
Tu vedra' Italia e l'onorata riva,

Canzon, ch'agli occhi miei cela e contende
Non mar, non poggio o fiume,

Ma solo Amor, che del suo altero lume
Più m'invaghisce dove più m'incende:
Nè natura può star contra 'l costume.
Or movi: non smarrir l'altre compagne;
Chè non pur sotto bende

Alberga Amor, per cui si ride e piagne.

SONETTO VII.

Prega un amico a volergli imprestare le Opere del Padre santo Agostino.

S'Amore o Morte non dà qualche stroppio Alla tela novella ch'ora ordisco,

E s'io mi svolvo dal tenace visco Mentre che l'un con l'altro vero accoppio; I' farò forse un mio lavor si doppio

Tra lo stil de' moderni e 'l sermon prisco, Che (paventosamente a dirlo ardisco) Infin a Roma n'udirai lo scoppio. Ma però che mi manca, a fornir l'opra, Alquanto delle fila benedette

Ch'avanzaro a quel mio diletto Padre; Perchè tien' verso me le man sì strette, Contra tua usanza? I' prego che tu l'opra; E vedrai rïuscir cose leggiadre.

VOL I.

CANZONE II. 1

A Cola da Rienzo, pregandolo di restituire a Roma l'antica sua libertà.

Spirto gentil, che quelle membra reggi,
Dentro alle qua' peregrinando alberga
Un signor valoroso, accorto e saggio;
Poichè se' giunto all'onorata verga,
Con la qual Roma e suoi erranti correggi,
E la richiami al suo antico viaggio,
Jo parlo a te, però ch'altrove un raggio
Non veggio di virtù, ch'al mondo è spenta,
Nè trovo chi di mal far si vergogni.
Che s'aspetti non so, nè che s'agogni
Italia, che suoi guai non par che senta,
Vecchia, ozïosa e lenta.

Dormirà sempre, e non fia chi la svegli?
Le man l'avess' io avvolte entro capegli!
Non spero che giammai dal pigro sonno
Mova la testa, per chiamar ch'uom faccia;
Si gravemente è oppressa, e di tal soma.
Ma non senza destino alle tue braccia,
Che scuoter forte e sollevarla ponno,
È or commesso il nostro capo, Roma.
Pon' man in quella venerabil chioma
Securamente, e nelle trecce sparte,
Si che la neghittosa esca del fango.
I', che di e notte del suo strazio piango,
Di mia speranza ho in te la maggior parte:
Chè se'l popol di Marte

Devesse al proprio onor alzar mai gli occhi, Parmi pur ch'a' tuoi di la grazia tocchi. L'antiche mura, ch'ancor teme, ed ama, E trema 'l mondo quando si rimembra

Del tempo andato, e 'ndietro si rivolve;
E i sassi, dove fur chiuse le membra
Di ta' che non saranno senza fama,
Se l'universo pria non si dissolve;
E tutto quel ch'una rüina involve,
Per te spera saldar ogni suo vizio.
O grandi Scipioni, o fedel Bruto,
Quanto v'aggrada, se gli è ancor venuto
Romor laggiù del ben locato offizio!
Come cre' che Fabbrizio

Si faccia lieto udendo la novella!
E dice: Roma mia sarà ancor bella.
E se cosa di qua nel Ciel si cura,
L'anime che lassù son cittadine,
Ed hanno i corpi abbandonati in terra,
Del lungo odio civil ti pregan fine,
Per cui la gente ben non s'assecura;
Onde 'l cammin a' lor tetti si serra,
Che fur già si devoti, ed ora in guerra
Quasi spelunca di ladron' son fatti,
Tal ch'a' buon solamente uscio si chiude;
E tra gli altari e tra le statue ignude
Ogn' impresa crudel par che si tratti.
Deh quanto diversi atti!

Nè senza squille s'incomincia assalto,
Che per Dio ringraziar fur poste in alto.
Le donne lagrimose, e 'l vulgo inerme
Della tenera etate, e i vecchi stanchi,
C'hanno sè in odio e la soverchia vita,
E i neri fraticelli, e i bigi e i bianchi,
Con l'altre schiere travagliate e 'nferme,
Gridan: O signor nostro, äíta, äíta;
E la povera gente sbigottita

Ti scopre le sue piaghe a mille a mille,
Ch'Annibale, non ch'altri, farían pio.
E se ben guardi alla magion di Dio,

Ch'arde oggi tutta, assai poche faville
Spegnendo, fien tranquille

Le voglie, che si mostran si 'nfiammate;
Onde fien l'opre tue nel Ciel laudate.
Orsi, lupi, lëoni, aquile e serpi

Ad una gran marmorëa Colonna
Fanno noja sovente, ed a sè danno:
Di costor piagne quella gentil donna,
Che t'ha chiamato acciocchè di lei sterpi
Le male piante, che fiorir non sanno.
Passato è già più che 'l millesim'anno
Che 'n lei mancâr quell'anime leggiadre,
Che locata l'avean là dov'ell'era.
Ahi nova gente, oltra misura altera,
Irreverente a tanta ed a tal madre!
Tu marito, tu padre,

Ogni soccorso di tua man s'attende;
Chè 'l maggior padre ad altr'opera intende.
Rade volte adivien ch'all'alte imprese
Fortuna ingiuriosa non contrasti,
Ch'agli animosi fatti mal s'accorda.
Ora sgombrando 'l passo onde tu intrasti,
Fammisi perdonar molt'altre offese;
Ch'almen qui da sè stessa si discorda:
Però che, quanto 'l mondo si ricorda,
Ad uom mortal non fu aperta la via
Per farsi, come a te, di fama eterno;
Chè puoi drizzar, s'i' non falso discerno,
In stato la più nobil monarchia.
Quanta gloria ti fia

Dir: Gli altri l'äitâr giovine e forte; Questi in vecchiezza la scampò da morte! Sopra 'l monte Tarpéo, Canzon, vedrai Un cavalier ch'Italia tutta onora, Pensoso più d'altrui che di sè stesso. Digli: Un che non ti vide ancor da presso,

Se non come per fama uom s'innamora,
Dice che Roma ogni ora,

Con gli occhi di dolor bagnati e molli,
Ti chier mercè da tutti sette i colli.

SONETTO VIII.

A messer Agapito, pregandolo di ricevere in sua memoria alcuni piccoli doni. La guancia che fu già piangendo stanca, Riposate su l'un, signor mio caro; E siate omai di voi stesso più avaro A quel crudel che suoi seguaci imbianca: Con l'altro richiudete da man manca

La strada a' messi suoi, ch'indi passaro, Mostrandovi un d'Agosto e di Gennaro; Perch'alla lunga via tempo ne manca: E col terzo bevete un suco d'erba

Che purghe ogni pensier che 'l cor afflige,
Dolce alla fine, e nel principio acerba.
Me riponete ove 'l piacer si serba,

Tal ch'i' non tema del Nocchier di Stige;
Se la preghiera mia non è superba.

SONETTO IX.

Invita le donne e gli amanti a pianger seco
la morte di Cino da Pistoja.

Piangete, donne, e con voi pianga Amore;
Piangete, amanti, per ciascun päese;
Poichè morto è colui che tutto intese
In farvi, mentre visse al mondo, onore.
per me prego il mio acerbo dolore,
Non sian da lui le lagrime contese;
E mi sia di sospir' tanto cortese,
Quanto bisogna a disfogare il core.

Io

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