網頁圖片
PDF
ePub 版

Questi canto gli errori e le fatiche
Del figliuol di Laerte e della Diva;
Primo pittor delle memorie antiche.

A man a man con lui cantando giva
Il Mantoan, che di par seco giostra;
Ed uno al cui passar l'erba fioriva.

Quest'è quel Marco Tullio, in cui si mostra Chiaro quant' ha eloquenza e frutti e fiori: Questi son gli occhi della lingua nostra.

Dopo venia Demostene, che fuori
È di speranza omai del primo loco,
Non ben contento de' secondi onori;

Un gran folgor parea tutto di foco;
Eschine il dica, che 'l potè sentire
Quando presso al suo tuon parve già roco.
Io non posso per ordine ridire
Questo o quel dove mi vedessi o quando,
E qual andar innanzi e qual seguire;
Chè cose innumerabili pensando,
E mirando la turba tale e tanta,
L'occhio il pensier m' andava desviando.
Vidi Solon, di cui fu l'util pianta
Che, s'è mal culta, mal frutto produce;
Con gli altri sei di cui Grecia si vanta.
Qui vid' io nostra gente aver per duce
Varrone, 1 terzo gran lume romano,
Che quanto 'l miro più, tanto più luce.
Crispo Sallustio seco a mano a mano,
E chi già gli ebbe invidia e videl torto,
Ciò è 'l gran Tito Livio padoano.

Mentr' io mirava, subito ebbi scorto
Quel Plinio veronese suo vicino,
A scriver molto, a morir poco accorto.
Poi vidi '1 gran platonico Plotino,
Che, credendosi in ozio viver salvo,
Prevento fu dal suo fiero destino,

Il qual seco venía dal matern' alvo,
E però provvidenza ivi non valse;

Poi Crasso, Antonio, Ortensio, Galba, e Calvo
Con Pollion, che 'n tal superbia salse,
Che contra quel d'Arpino armar le lingue
Ei duo, cercando fame indegne e false.
Tucidide vid' io, che ben distingue

I tempi e i luoghi e loro opre leggiadre,
E di che sangue qual campo s'impingue.
Erodoto, di greca istoria padre,
Vidi; e dipinto il nobil geometra
Di triangoli e tondi e forme quadre;

E quel che 'nver di noi divenne petra,
Porfirio, che d'acuti sillogismi

Empiè la dialettica faretra,

Facendo contra 'l vero arme i sofismi;
E quel di Coo, che fe' vie miglior l'opra,
Se ben Intesi fosser gli aforismi.

Apollo ed Esculapio gli son sopra,
Chiusi, ch' appena il viso gli comprende;
Si par che i nomi il tempo limi e copra.
Un di Pergamo il segue; e da lui pende
L'arte guasta fra noi, allor non vile,
Ma breve e oscura; ei la dichiara e stende.
Vidi Anasarco intrepido e virile;
E Senocrate più saldo ch'un sasso,
Che nulla forza il volse ad atto vile.
Vidi Archimede star col viso basso;
E Democrito andar tutto pensoso,
Per suo voler di lume e d'oro casso.

Vid' Ippia, il vecchierel che già fu oso
Dir: I' so tutto; e poi di nulla certo,
Ma d'ogni cosa Archesilao dubbioso.
Vidi in suoi detti Eraclito coperto:
E Diogene cinico, in suoi fatti,
Assai più che non vuol vergogna, aperto;
E quel che lieto i suoi campi disfatti
Vide e deserti, d'altra merce carco,
Credendo averne invidiosi patti.

Iv'era il curioso Dicearco;
Ed in suoi magisteri assai dispari
Quintiliano e Seneca e Plutarco.

Vidivi alquanti c'han turbati i mari Con venti avversi, ed intelletti vaghi; Non per saper ma per contender chiari; Urtar, come leoni, e come draghi Con le code avvinchiarsi: or, che è questo, Ch' ognun del suo saper par che s'appaghi? Carneade vidi in suoi studi si desto, Che parland' egli, il vero e 'l falso appena Si discernea; così nel dir fu presto.

La lunga vita e la sua larga vena D'ingegno pose in accordar le parti Che 'I furor letterato a guerra mena.

Nè 'l potèo far: che come crebber l'arti, Crebbe l'invidia; e col sapere insieme Ne' cuori enfiati i suoi veneni sparti. Contra 'l buon Siro che l' umana speme Alzò, ponendo l'anima immortale, S'armò Epicuro (onde sua fama geme) Ardito a dir ch'ella non fosse tale (Cosi al lume fu famoso e lippo), Con la brigata al suo maestro eguale: Di Metrodoro parlo e d'Aristippo. Poi, con gran subbio e con mirabil fuso, Vidi tela sottil tesser Crisippo.

Degli Stoici 'l padre alzato in suso, Per far chiaro suo dir, vidi Zenone Mostrar la palma aperta e 'l pugno chiuso; E per fermar sua bella intenzione La sua tela gentil ordir Cleante, Che tira al ver la vaga opinïone. Qui lascio, e più di lor non dico avante.

TRIONFO DEL TEMPO

CAPITOLO UNICO

Dell'aureo albergo, con l'Aurora innanzi,

Si ratto usciva 'l Sol cinto di raggi,
Che detto aresti: E' si corcò pur dianzi.
Alzato un poco, come fanno i saggi,
Guardoss' intorno; ed a sè stesso disse:
Che pensi? omai convien che più cura aggi.
Ecco, s'un uom famoso in terra visse,

E di sua fama per morir non esce,
Che sarà della legge che 'l Ciel fisse ?
E se fama mortal morendo cresce,
Che spegner si doveva in breve, veggio
Nostra eccellenzia al fine; onde m'incresce.
Che più s'aspetta, o che pote esser peggio?
Che più nel ciel ho io, che 'n terra un uomo,
A cui esser egual per grazia cheggio?

Quattro cavai con quanto studio como,
Pasco nell' Oceano, e sprono e sferzo!
E pur la fama d'un mortal non domo.

Ingiuria da corruccio e non da scherzo,
Avvenir questo a me; s'io foss' in cielo,
Non dirò primo, ma secondo o terzo.

Or convien che s'accenda ogni mio zelo,
Si ch'al mio volo gli raddoppi i vanni:
Ch'io porto invidia agli uomini, e nel celo:
De' quali veggio alcun, dopo mill' anni
E mille e mille, più chiari che 'n vita;
Ed io m' avanzo di perpetui affanni.

Tal son qual era anzi che stabilita
Fosse la terra; di e notte rotando
Per la strada rotonda ch'è infinita.

Poi che questo ebbe detto, disdegnando
Riprese il corso più veloce assai
Che falcon d'alto a sua preda volando.

Più dico; nè pensier poria giammai
Seguir suo volo, non che lingua o stile;
Tal che con gran paura il rimirai.

Allor tenn'io il viver nostro a vile
Per la mirabil sua velocitate,

Via plù ch' innanzi nol tenea gentile:
E parvemi mirabil vanitate

Fermar in cose il cor che 'l Tempo preme,
Che mentre più le stringi, son passate.
Però chi di suo stato cura o teme,
Proveggia ben, mentr'è l'arbitrio intero,
Fondar in loco stabile sua speme:

Chè quant' io vidi 'l Tempo andar leggero
Dopo la guida sua, che mai non posa,
I' nol dirò, perchè poter nol spero.

I' vidi ghiaccio, e li presso la rosa; Quasi in un punto il gran freddo e 'l gran caldo Che pur udendo par mirabil cosa.

Ma chi ben mira col giudicio saldo, Vedrà esser cosi: che nol vid' io; Di che contra me stesso or mi riscaldo. Seguli già le speranze e 'l van desio; Or ho dinanzi agli occhi un chiaro specchio Ov'io veggio me stesso e 'I fallir mio;

E quanto posso, al fine m'apparecchio,
Pensando ' breve viver mio, nel quale
Stamane era un fanciullo ed or son vecchio.
Che più d'un giorno è la vita mortale,
Nubilo, breve, freddo e pien di noia,
Che può bello parer, ma nulla vale?
Qui l'umana speranza e qui la gioia;
Qu'i miseri mortali alzan la testa;
E nessun sa quanto si viva o moia.
Veggio or la fuga del mio viver presta,
Anzi di tutti; e nel fuggir del Sole,
La ruina del mondo manifesta.

Or vi riconfortate in vostre fole,
Giovani, e misurate il tempo largo;
Chè piaga antiveduta assai men dole.
Forse che 'ndarno mie parole spargo;
Ma io v'annunzio che voi sete offesi
Di un grave e mortifero letargo:

Che volan l' ore, i giorni e gli anni e i mesi
E insieme, con brevissimo intervallo,
Tutti avemo a cercar altri paesi.

Non fate contra 'l vero al core un callo, Come sete usi; anzi volgete gli occhi Mentr' emendar potete il vostro fallo.

Non aspettate che la Morte scocchi, Come fa la più parte; chè per certo Infinita è la schiera degli sciocchi.

Poi ch'i'ebbi veduto e veggio aperto
Il volar e 'l fuggir del gran pianeta,
Ond' i' ho danni e 'nganni assai sofferto;
Vidi una gente andarsen queta queta,
Senza temer di Tempo o di sua rabbia;
Che gli avea in guardia istorico o poeta.
Di lor par più che d'altri invidia s'abbia;
Chè per sè stessi son levati a volo,
Uscendo for della comune gabbia.

Contra costor colui che splende solo,
S'apparecchiava con maggiore sforzo,
E riprendeva un più spedito volo.
A' suoi corsier raddoppiat' era l'orzo;
E la reina di ch'io sopra dissi,
D'alcun de' suoi volea già far divorzio.

Udi' dir, non so a chi, ma 'I detto scrissi:
In questi umani, a dir proprio, ligustri,
Di cieca obblivione oscuri abissi,

Volgerà 'l Sol, non pur anni, ma lustri E secoli, vittor d'ogni cerebro; E vedra' il vaneggiar di questi illustrl. Quanti fur chiari tra Peneo ed Ebro, Che son venuti o verran tosto meno! Quant' in sul Xanto e quant' in val di Tebro! Un dubbio verno, un instabil sereno È vostra fama; e poca nebbia il rompe; El gran tempo a' gran nomi è gran veneno. Passan vostri trionfi e vostre pompe, Passan le signorie, passano i regni; Ogni cosa mortal Tempo interrompe;

E ritolta a' men buon, non dà a' più degni; E non pur quel di fuori il Tempo solve, Ma le vostre eloquenze e i vostri ingegni. Cosi fuggendo, il mondo seco volve; Nè mai si posa nè s'arresta o torna, Fin che v' ha ricondotti in poca polve. Or perchè umana gloria ha tante corna, Non è mirabil cosa s' a fiaccarle Alquanto oltra l'usanza si soggiorna.

Ma cheunque si pensi il volgo o parle,
Se'l viver nostro non fosse si breve,
Tosto vedreste in fumo ritornarle.

Udito questo (perchè al ver si deve
Non contrastar, ma dar perfetta fede)
Vidi ogni nostra gloria, al Sol, di neve.
E vidi tempo rimenar tal prede
De' vostri nomi, ch'i' gli ebbi per nulla:
Benchè la gente ciò non sa nè crede;

Cieca, che sempre al vento si trastulla,
E pur di false opinion si pasce,
Lodando più 'l morir vecchio, che 'n enlla.
Quanti son già morti felici in fasce!
Quanti miseri in ultima vecchiezza!
Alcun dice: Beato è chi non nasce.

Ma per la turba a' grandi errori avvezza, Dopo la lunga età sia 'I nome chiaro. Che è questo però che si s'apprezza?

Tanto vince e ritoglie il Tempo avaro; Chiamasi Fama, ed è morir secondo; Nè più che contra 'l primo è alcun riparo, Cosi' Tempo trionfa i nomi e 'l mondo.

TRIONFO DELLA DIVINITÀ

CAPITOLO UNICO

Da poi che sotto 'l ciel cosa non vidi
Stabile e ferma, tutto sbigottito
Mi volsi a me, e dissi: in che ti fidi?
Rispost: nel Signor che mai fallito
Non ha promessa a chi si fida in lui:

Ma veggio ben che 'l mondo m'ha schernito;
E sento quel ch'io sono e quel ch'i' fui;
E veggio andar, anzi volar il tempo;
E doler mi vorrel, nè so di cui:

Chè la colpa è pur mia, che più per tempo
Dove' aprir gli occhi, e non tardar al fine:
Ch'a dir il vero, omai troppo m'attempo.
Ma tarde non fur mai grazie divine:
In quelle spero che 'n me ancor faranno
Alte operazioni e pellegrine.

Cosi detto e risposto: Or se non stanno Queste cose che 'l Ciel volge e governa, Dopo molto voltar, che fine avranno?

Questo pensava: e mentre più s'interna La mente mia, veder mi parve un mondo Novo, in etate immobile ed eterna;

El Sole e tutto '1 ciel disfare a tondo
Con le sue stelle; ancor la terra e 'l mare;
E rifarne un più bello e più giocondo.

Qual maraviglia ebb'io quando restare
Vidi in un piè colui che mai non stette,
Ma discorrendo suol tutto cangiare!
E le tre parti sue vidi ristrette
Ad una sola; e quell'una esser ferma:
Si che, come solea, più non s'affrette!
E quasi in terra d'erba ignuda ed erma,
Nè fia nè fu nẻ mai v'era, anzi o dietro,
Ch' amara vita fanno, varia e 'nferma.

Passa 'l pensier si come Sole in vetro,
Anzi più assai, però che nulla il tene:
O qual grazia mi fia, se mai l'impetro,
Ch'i' veggiami presente il sommo Bene,
Non alcun mal, che solo il tempo mesce,
E con lui si diparte e con lui vene!

Non avrà albergo il Sol in Tauro o 'n Pesce; Per lo cui variar, nostro lavoro

Or nasce or more, ed or scema ed or cresce.
Beat' i spirti che nel sommo coro

Si troveranno o trovano in tal grado
Che fia in memoria eterna il nome loro!
O felice colui che trova il guado
Di questo alpestro e rapido torrente
Ch'ha nome vita, ch'a molti è si a grado!
Misera la volgare e cieca gente,
Che pon qui sue speranze in cose tali,
Che 'l tempo le ne porta si repente !
O veramente sordi, ignudi e frali,
Poveri d'argomento e di consiglio,
Egri del tutto e miseri mortali !

Quel, che 'l mondo governa pur col ciglio;
Che conturba ed acqueta gli elementi;
Al cui saper non pur io m'appiglio,
Ma gli angeli ne son lieti e contenti
Di veder delle mille parti l'una,
Ed in ciò stanno desiosi e 'ntenti.

O mente vaga, al fin sempre digiuna! A che tanti pensier? un'ora sgombra Quanto in molt'anni appena si raguna.

Quel che l'anima nostra preme e 'ngombra,
Dianzi, adesso, ier, diman, mattino e sera,
Tutti in un punto passeran com'ombra;
Non avrà loco fu, sarà, nè era;
Ma è solo, in presente, e ora, e oggi,
E sola eternità raccolta e 'ntera.

Equarsi dietro e innanzi valli e poggi,
Ch' occupavan la vista; e non fia in cui
Nostro sperar e rimembrar s'appoggi:
La qual varietà fa spesso altrui
Vaneggiar si, che 'l viver pare un gioco,
Pensando pur: che sarò io? che fui?

Non sarà più diviso a poco a poco,

Ma tutto insieme; e non più state o verno,
Ma morto 'l tempo, e variato il loco.

E non avranno in man gli anni e 'l governo
Delle fame mortali; anzi chi fia
Chiaro una volta, fia chiaro in eterno.
O felici quell' anime che 'n via
Sono o saranno di venir al fine
Di ch'io ragiono, quandunqu'e' si sia!
E tra l'altre leggiadre e pellegrine,
Beatissima lei che Morte ancise
Assai di qua dal natural confine!
Parranno allor l'angeliche divise,
E l'oneste parole, e i pensier casti,
Che nel cor giovenil Natura mise.

Tanti volti che 'l Tempo e Morte han guasti Torneranno al suo più fiorito stato;

E vedrassi ove, Amor, tu mi legasti,
Ond' io a dito ne sarò mostrato:
Ecco chi pianse sempre, e nel suo pianto
Sopra riso d'ogni altro fu beato.

E quella di cui ancor piangendo canto,
Avrà gran maraviglia di sè stessa,
Vedendosi da tutte dar il vanto.

Quando ciò fia, nol so; sassel propri' essa; Tanta credenza ha più fidi compagni ; A si alto segreto chi s' appressa? Credo che s'avvicini: e de' guadagni Veri e de' falsi si farà ragione; Chè tutte fieno allor opre di ragni. Vedrassi quanto in van cura si pone, E quanto indarno s'affatica e suda; Come sono ingannate le persone.

Nessun secreto fia chi copra o chiuda; Fia ogni coscienza, o chiara o fosca, Dinanzi a tutto il mondo aperta e nuda; E fia chi ragion giudichi e conosca : Poi vedrem prender ciascun suo viaggio, Come fiera cacciata si rimbosca;

E vederassi in quel poco paraggio
Che vi fa ir superbi, oro e terreno,
Essere stato danno e non vantaggio;

E 'n disparte, color che sotto 'l freno
Di modesta fortuna ebbero in uso,
Senz' altra pompa, di godersi in seno.
Questi Trionfi, cinque in terra giuso
Avem veduti, ed alla fine il sesto,
Dio permettente, vederem lassuso;

E' Tempo disfar tutto e così presto;
E Morte in sua ragion cotanto avara;
Morti insieme saranno e quella e questo.

E quei che fama meritaron chiara,
Che 'l Tempo spense; e i bei visi leggiadri,
Che 'mpallidir fe' il Tempo e Morte amara;
L'oblivion, gli aspetti oscuri ed adri,
Più che mai bei tornando, lasceranno
A Morte impetuosa i giorni ladri.

Nell' età più fiorita e verde aranno
Con immortal bellezza eterna fama;
Ma innanzi a tutti ch' a rifar si vanno

È quella che piangendo il mondo chiama Con la mia lingua e con la stanca penna; Ma 'I ciel pur di vederla intera brama.

A riva un fiume che nasce in Gebenna Amor mi diè per lei si lunga guerra, Che la memoria ancor il core accenna. Felice sasso che 'l bel viso serra! Che poi ch' avrà ripreso il suo bel velo, Se fu beato chi la vide in terra,

Or che fia dunque a rivederla in cielo?

FINE DELLE RIME

« 上一頁繼續 »