PARTE QUARTA I TRIONFI TRIONFO D'AMORE CAPITOLO I Nel tempo che rinnova i miei sospiri Ivi fra l'erbe, già del pianger fioco, Io, che gioir di tal vista non soglio, Vago d'udir novelle, oltra mi misi Allor mi strinsi a rimirar s'alcuno Nessun vi riconobbi: e s'alcun v'era Di mia notizia, avea cangiato vista Per morte, o per prigion crudele e fera. Un'ombra alquanto men che l'altre trista Mi si fe' incontro, e mi chiamò per nome, Dicendo: Questo per amar s'acquista. Ond' io, maravigliando, dissi: Or come Conosci me, ch'io te non riconosca? Ed ei: Questo m'avvien per l'aspre some De' legami ch'io porto; e l'aria fosca Contende agli occhi tuoi: ma vero amico Ti sono; e teco nacqui in terra tosca. Le sue parole, e 'l ragionare antico Scoperson quel che 'l viso mi celava: E cosi n'ascendemmo in luogo aprico: E cominciò: Gran tempo è ch'io pensava Vederti qui fra noi; chè da' prim' anni Tal presagio di te tua vista dava. E' fu ben ver; ma gli amorosi affanni O figliuol mio, qual per te fiamma è accesa! Che mai più saldo in marmo non si scrisse. E prima cangerai volto e capelli, Quest'è colui che 'l mondo chiama Amore; Amaro, come vedi, e vedrai meglio Quando fia tuo, come nostro, signore: Mansueto fanciullo, e fiero veglio: Qual è morto da lui, qual con più gravi Leggi mena sua vita aspra ed acerba, Sotto mille catene e mille chiavi. Quel che 'n si signorile e si superba Vista vien prima, è Cesar, che 'n Egitto Cleopatra legò tra'fiori e l'erba. Or di lui si trionfa: ed è ben dritto, Se vinse il mondo ed altri ha vinto lui, Che del suo vincitor si glorie il vitto. L'altro è'l suo figllo: e pur amò costui Più giustamente: egli è Cesar Augusto, Che Livia sua, pregando, tolse altrui. Neron è terzo, dispietato e 'ngiusto: Vedilo andar pien d'ira e di disdegno: Femmina vinse; e par tanto robusto. Vedi buon Marco d'ogni laude degno, Pien di filosofia la lingua e 'l petto: Pur Faustina il fa qui stare a segno. Que' duo pien di paura e di sospetto, Ed ella ne morio; vendetta forse Tal biasma altrui che sè stesso condanna: Vedi ' famoso, con tante sue lode Preso menar fra due sorelle morte: L'una di lui ed ei dell'altra gode. Colui ch'è seco, è quel possente e forte Ercole, ch'Amor prese; e l'altro è Achille, Ch'ebbe in suo amor assai dogliosa sorte. Quell' altro è Demofonte, e quella è Fille: Quell'è Giason, e quell'altra è Medea, Ch'Amor e lui segui per tante ville; E quanto al padre ed al fratel fu rea, Tanto al suo amante più turbata e fella, Che del suo amor più degna esser credea. Isifile vien poi: e duolsi anch' ella Del barbarico amor che 'l suo gli ha tolto; Poi vien colei c' ha 'I titol d'esser bella. Seco hal pastor che mal il suo bel volto Mirò si fiso; ond' uscir gran tempeste, E funne il mondo sottosopra volto. Odi poi lamentar fra l'altre meste D' Elèna; ed Ermïon chiamare Oreste, Odi i pianti e i sospiri, odi le strida Delle misere accese, che gli spirti Rendero a lui che 'n tal modo le guida. Non poria mai di tutti il nome dirti: Chè non uomini pur, ma Dei, gran parte Empion del bosco degli ombrosi mirti. Vedi Venere bella e con lei Marte Cinto di ferri i piè, le braccia e 'l collo; E Plutone e Proserpina in disparte, Vedi Giunon gelosa, e 'l biondo Apollo, Che solea disprezzar l'etate e l'arco Che gli diede in Tessaglia poi tal erollo. Che debb' io dir? in un passo men varco: Tutti son qui prigion gli Dei di Varro; E di laeciuoli innumerabil carco, Vien catenato Giove innanzi al carro. CAPITOLO II Era si pieno il cor di maraviglie, Ch'io stava come l'uom che non può dire, E tace, e guarda pur ch'altri 'l consiglie: Quando l'amico mio: Che fai? che mire? Che pensi? disse; non sai tu ben ch'io Son della turba, e mi convien seguire? Frate, risposi, e tu sai l'esser mio, E l'amor di saper che m' ha si acceso, Che l'opra è ritardata dal desio. Ed egli: I' t'avea già tacendo inteso: Tu vuoli udir chi son quest'altri ancora; I' tel dirò, se 'l dir non m'è conteso. Vedi quel grande il quale ogni uomo onora: Egli è Pompeo, ed ha Cornelia seco, Che del vil Tolomeo si lagua e plora. L'altro più di lontan, quell'è 'l gran Greco; Ne vede Egisto, e l'empia Clitennestra: Or puoi veder Amor s' egli è ben cieco. Altra fede, altro amor: vedi Ipermestra; Vedi Piramo e Tisbe insieme all'ombra; Leandro in mare ed Ero alla finestra. Quel si pensoso è Ulisse, affabil ombra, Che la casta mogliera aspetta e prega, Ma Circe, amando, gliel ritiene e 'ngombra. L'altr'è figliuol d'Amilcar: e nol piega In cotant'anni Italia tutta e Roma; Vil femminella in Puglia il prende e lega. Quella che 'l suo signor con breve chioma Va seguitando, in Ponto fu reina: Come in atto servil sè stessa doma! L'altra è Porzia, che 'l ferro al foco affina: Quell' altra è Giulia; e duolsi del marito Ch'alla seconda fiamma più s'inchina. Volgi in qua gli occhi al gran padre schernite, Che non si pente, e d'aver non gl'incresce Sette e sett'anni per Rachel servito. Vivace amor, che negli affanni cresce! Poi guarda come Amor crudele e pravo Ve' l'altro, che 'n un punto ama e disama: Vedi Tamar, ch'al suo frate Absalone Disdegnosa e dolente si richiama. Poco dinanzi a lei vedi Sansone, Vedi qui ben fra quante spade e lance Vince Oloferne; e lei tornar soletta El padre colto, e 'l popolo ad un veschio: Dall' un si scioglie, e lega all' altro nodo: Vuoi veder in un cor diletto e tedio, Semiramis e Bibli e Mirra ria; Ecco quei che le carte empion di sogni, Cosi parlava: ed io, com'uom che teme E come ricordar di vero parme, Gli occhi dal suo bel viso non volgea, Com'uom ch'è infermo, e di tal cosa ingordo Che, dolce al gusto, alla salute è rea. Ad ogni altro piacer cieco era e sordo, Da quel tempo ebbi gli occhi umidi e bassi, El cor pensoso, e solitario albergo Fonti, fiumi, montagne, boschi e sassi. Da indi in qua cotante carte aspergo E veggio andar quella leggiadra fera, Dall'altra parte, s'io discerno bene, Ch'a mia difesa non ho ardir nè forza; E quello in ch'io sperava, lei lusinga, Che me e gli altri crudelmente scorza. Costei non è chi tanto o quanto stringa; Così selvaggia e ribellante suole Dall'insegne d'Amor andar solinga. E veramente è fra le stelle un Sole Un singular suo proprio portamento, Suo riso, suoi disdegni e sue parole: Le chiome accolte in oro sparse al vento, Così preso mi trovo ed ella sciolta; Dura legge d'Amor! ina benchè obliqua, Or so come da sè il cor si disgiunge, E temer di trovarla; e so in qual guisa So fra lunghi sospiri e brevi risa So mille volte il di ingannar me stesso; So, seguendo 'l mio fuoco ovunqu'e' fugge, Arder da lunge ed agghiacciar da presso. So com'Amor sopra la mente rugge, E com' ogni ragione indi discaccia; E so in quante maniere il cor si strugge. So di che poco canape s'allaccia Un'anima gentil, quand'ella è sola E non è chi per lei difesa faccia. So com'Amor saetta e come vola; E so com'or minaccia ed or percuote; E come sono instabili sue ruote; Le speranze dubbiose e 'l dolor certo; Sue promesse di fè come son vote; Come nell'ossa il suo foco coperto E nelle vene vive occulta piaga; Onde morte è palese e 'ncendio aperto. In somma so com'è incostante e vaga, Timida, ardita vita degli amanti; Ch'un poco dolce molto amaro appaga. E so i costumi e i lor sospiri e canti El parlar rotto e 'l subito silenzio El brevissimo riso e i lunghi pianti, E qual è 'l mel temprato con l'assenzio. CAPITOLO III Poscia che mia fortuna in forza altrui Io, ch'era più salvatico ch' e' cervi, E le fatiche lor vidi e' lor frutti, Mentre ch'io volgea gli occhi in ogni parte S'i' ne vedessi alcun di chiara fama O per antiche o per moderne carte, Vidi colui che sola Euridice ama, E lei segue all' inferno, e, per lei morto, Alceo conobbi, a dir d'amor si scorto; Virgilio vidi; e parmi intorno avesse Una giovane greca a paro a paro Ecco Dante e Beatrice; ecco Selvaggia; Che fur già primi, e quivi eran da sezzo; Sennuccio e Franceschin, che fur si umani, Com'ogni uom vide; e poi v'era un drappello Di portamenti e di volgari strani. Fra tutti il primo Arnaldo Daniello, L'un Pietro e l'altro; e 'l men famoso Arnaldo Folchetto, ch'a Marsiglia il nome ha dato, E mille altri ne vidi; a cui la lingua Poco era fuor della comune strada, Con questi duo cercai monti diversi, Andando tutti tre sempre ad un giogo; A questi le mie piaghe tutte apersl. Da costor non mi può tempo nè luogo Divider mai (siccome spero e bramo) Infin al cener del funereo rogo. Con costor colsi 'l glorioso ramo Onde forse anzi tempo ornai le tempie In memoria di quella ch'i' tant' amo. Ma pur di lei, che 'l cor di pensier m'emple, Non potei coglier mai ramo nè foglia; Si fur le sue radici acerbe ed empie. Onde, benchè talor doler mi soglia Com'uom ch'è offeso, quel che con quest'occhi Vidi, m'è un fren che mai più non mi doglia. Materia da coturni, e non da socchi, Veder preso colui ch'è fatto Deo Da tardi ingegni, rintuzzati e sciocchi. Ma prima vo' seguir che di noi feo: Poi seguirò quel che d'altrui sostenne. Opra non mia, ma d'Omero o d'Orfeo. Seguimmo il suon delle purpuree penne Più ch'altra che 'l Sol scalde o che 'l mar bague. |