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LA DIVINA COMMEDIA

DI

DANTE ALIGHIERI

VITA DANTIS POETE CLARISSIMI

PER LEONARDUM ARRETINUM

INCIPIT

VENDO in questi giorni posto fine a un'opera assai lunga, mi venne appetito di volere, per ristoro dell'affaticato ingegno, leggere alcuna cosa vulgare; perocchè, come nella mensa un medesimo cibo, così negli studi una medesima lezione continuata rincresce. Cercando adunque con questo proposito, mi venne alle mani un' operetta del Boccaccio intitolata Della vita, costumi e studi del clarissimo poeta Dante: la quale opera, benchè da me altra volta fusse stata diligentissimamente letta, pur al presente esaminata di nuovo, mi parve che il nostro Boccaccio, dolcissimo e suavissimo uomo, così scrivesse la vita e i costumi di tanto sublime Poeta, come se a scrivere avesse il Filocolo, o il Filostrato, o la Fiammetta. Perocchè tutta d'amore e di sospiri e di cocenti lagrime è piena; come se l'uomo nascesse in questo mondo solamente per ritrovarsi in quelle dieci Giornate amorose, nelle quali da donne innamorate e da giovani leggiadri raccontate furono le cento Novelle: e tanto s'infiamma in queste parti d'amore, che le gravi e sustanzievoli parti della Vita di Dante lascia indietro e trapassa con silenzio, ricordando le cose leggieri, e tacendo le gravi. Io dunque mi posi în cuore per mio spasso scriver di nuovo la Vita di Dante con maggior notizia delle cose stimabili. Nè questo faccio per derogare al Boccaccio, ma perchè lo scriver mio sia quasi un supplimento allo scriver di lui: ed aggiugnerò poi la Vita del Petrarca, perchè la notizia e la fama di

questi due Poeti grandemente reputo appartenere alla gloria della città nostra. Vegnan o dunque prima al fatto di Dante.

I maggiori di Dante furono in Firenze di molto antica stirpe, intantochè lui pare volere in alcun luogo i suoi antichi essere stati di quelli Romani che posero Firenze; ma questa è cosa molto incerta, e, secondo mio parere, niente è altro che indovinare. Di quelli che io bo notizia, il tritavolo suo fu messer Cacciaguida cavalier fiorentino, il quale militò sotto l'Imperador Currado. Questo messer Cacclaguida ebbe due fratelli, l'uno chiamato Moronto, l'altro Eliseo. Di Moronto non si legge alcuna successione; ma da Eliseo nacque quella famiglia nominata gli Elisei, e forse ancho prima aveano questo nome. Di messer Cacciaguida nacquero gli Aldighieri, così nominati da un suo figliuolo, il quale per stirpe materna ebbe nome Aldighieri. Messer Cacciaguida, e i fratelli, ei loro antichi, abitarono quasi in sul canto di Porta San Piero, dove prima vi s'entra da Mercato vecchio, nelle case che ancora oggi si chiamano delli Elisei, perchè a loro rimase l'antichità. Quelli di messer Cacciaguida, detti Aldighieri, abitarono in su la piazza dietro a San Martino del Vescovo, dirimpetto alla via che va a casa i Sacchetti, e dall'altra parte si stende verso le case dei Donati e dei Giuochi. Nacque Dante nelli anni Domini Mcclxv, poco dopo la tornata de' Guelfi in Firenze, stati in esilio per la sconfitta di Montaperti. Nella puerizia sua, nutrito liberalmente

e dato a' precettori delle lettere, subito apparve in lui ingegno grandissimo e attissimo a cose eccellenti. Il padre suo Aldighieri perdè nella sua puerizia; nientedimanco, confortato dai propinqui e da Brunetto Latini, valentissimo uomo secondo quel tempo, non solamente a litteratura, ma a degli altri studi liberali si diede, niente lasciando indietro che appartenga a far l'uomo eccellente. Nè per tutto questo si racchiuse in ozio, nè privossi del secolo, ma vivendo e conversando con li altri giovani di sua età, costumato ed accorto e valoroso ad ogni esercizio giovanile si trovava: intantochè in quella battaglia memorabile e grandissima, che fu a Campaldino, lui giovane e bene stimato si trovò nell'armi, combattendo vigorosamente a cavallo nella prima schiera. Dove portò gravissimo pericolo: perocchè la prima battaglia fu delle schiere equestri, cioè dei cavalieri, nella quale i cavalleri che erano dalla parte delli Aretini con tanta tempesta vinsero e superchiarono la schiera de' cavalieri fiorentini, che sbarattati e rotti bisognò fuggire alla schiera pedestre. Questa rotta fu quella che fe' perdere la battaglia alli Aretini, perchè i loro cavalieri vincitori, perseguitando quelli che fuggivano per grande distanza, lasciarono addietro la loro pedestre schiera; sicchè da quindi innanzi in niun luogo interi combatterono, ma i cavalieri soli e di per sè senza sussidio di pedoni, e i pedoni poi di per sè senza sussidio de' cavalieri. Ma dalla parte de' Fiorentini addivenne il contrario, che per essere fuggiti i loro cavalieri alla schiera pedestre, si ferono tutti un corpo, e agevolmente vinsero prima i cavalieri e poi i pedoni. Questa battaglia racconta Dante in una sua epistola, e dice esservi stato a combattere, e disegna la forma della battaglia. E per notizia della cosa, sapere dobbiamo che Uberti, Lamberti, Abati, e tutti gli altri usciti di Firenze erano con li Aretini; e tutti li usciti d'Arezzo, gentiluomini e popolani guelfi, che in quel tempo tutti erano scacciati, erano co' Fiorentini in questa battaglia. E per questa cagione le parole scritte in Palagio dicono Sconfitti i Ghibellini a Certomondo, e non dicono Sconfitti gli Aretini, acciocchè quella parte delli Aretini che fu col Comune a vincere, non si potesse dolere. Tornando dunque al nostro proposito, dico che Dante virtuosamente si trovò a combattere per la patria in questa battaglia: e vorrei che il Boccaccio nostro di questa virtù avesse fatto menzione, più che dell' amore di nove anni, e di simili leggerezze, che per lui si raccontano di tanto uomo. Ma che giova a dire? La lingua pur va dove il dente duole; e a chi piace il bere, sempre ragiona di vini. Dopo questa battaglia, tornatosi Dante a casa, alli studi più fer

ventemente che prima si diede; e nondimanco niente tralasciò delle conversazioni urbane e civili. Ed era mirabil cosa, che studiando continuamente, a niuna persona sarebbe paruto che egli studiasse, per l'usanza lieta e conversazione giovanile. Per la qual cosa mi giova riprendere l'errore di molti ignoranti, i quali credono niuno essere studiante se non quelli che si nascondono in solitudine ed in ozio: e io non vidi mai niuno di questi camuffati e rimossi dalla conversazione delli uomini che sapesse tre lettere. L'ingegno grande e alto non ha bisogno di tali tormenti; anzi è verissima conclusione e certissima, che quelli che non apparano tosto, non apparano mai: sicchè stranarsi e levarsi dalla conversazione è al tutto di quelli che niente son atti col loro basso ingegno ad imprendere. Nè solamente conversò civilmente Dante con li uomini, ma ancora tolse moglie in sua giovanezza, e la moglie sua fu gentildonna della famiglia de' Donati, chiamata per nome madonna Gemma, della quale ebbe più figliuoli, come in altra parte di quest' opera dimostreremo. Qui il Boccaccio non ba pazienza, e dice le mogli esser contrarie alli studi; e non si ricorda che Socrate, il più nobile filosofo che mai fusse, ebbe moglie e figliuoli, e ufici nella repubblica della sua città. E Aristotile, che non si può dir più là di sapienza e di dottrina, ebbe due mogli in vari tempi, e ebbe figliuoli, e ricchezze assai. E Marco Tullio, e Catone, e Varrone, e Seneca, latini sommi, filosofi tutti, ebbero moglie, ufici, e governi nella repubblica. Sicchè, perdonimi il Boccaccio, i suoi giudicii sono molto fievoli in questa parte, e molto distanti dalla vera opinione. L'uomo è animale civile, secondo piace a tutti i filosofi la prima congiunzione, dalla quale multiplicata nasce la città, è marito e moglie; nè cosa può esser perfetta, dove questo non sia, e solo questo amore è naturale, legittimo, e permesso. Dante adunque, tolto donna, e vivendo civilmente ed onesta e studiosa vita, fu adoperato nella repubblica assai; e finalmente, pervenuto all' età debita, fu creato de' Priori, non per sorte, come s'usa al presente, ma per elezione, come in quel tempo si costumava di fare. Furono nell' uficio del priorato con lui messer Palmieri degli Altoviti, e Neri di messer Iacopo degli Alberti, ed altri Collegi; e fu questo suo priorato nel 1300. Da questo priorato nacque la cacciata sua, e tutte le cose avverse che egli ebbe nella vita, secondo lui medesimo scrive in una sua epistola, della quale le parole son queste: Tutti li mali e tutti < l'inconvenienti miei dalli infausti comizi del <mio priorato ebbero cagione e principio; del quale priorato benchè per prudenza io non

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