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SONETTO LXI.

E' contento di feguire la 'mpresa amorofa, dove voglia lafciare la

算。

crudeltà: altrimenti le minaccia d'abbandonarla.

o non fu' d' amar voi laffato unquanco,

Madonna, nè farò, mentre ch' io viva:
Ma d' odiar me medefmo giunto a riva,
E del continuo lagrimar fo ftanco.

E voglio anzi un fepolcro bello, e bianco;
Che 'l voftro nome a mio danno fi fcriva
In alcun marmo, ove di fpirto priva
Sia la mia carne, che può ftar feco anco.
Però s' un cor pien d'amorofa fede

Può contentarvi fenza farne ftrazio;
Piacciavi omai di quefto aver mercede:
Se 'n altro modo cerca d' effer fazio

Voftro fdegno, erra; e non fia quel che crede:
Di che Amor', e me fteffo affai ringrazio.

SONETTO LXII.

Parla della materia dell' ultimo Verfo del Sonetto precedente. Ancorachè non fia per liberarfi in tutto da Amore, maffimamente trovandofi in presenzia di Laura, primachè non fia vecchio, nondimeno non è più per fentirne tormento. Or dipinge vagamente un amore leggiero, ed un grave in molte guife.

Se bianche non fon prima ambe le tempie,
Ch' a poco a poco par, che 'l tempo mischi;
Securo non farò, bench' io m' arrischi
Talor', ov' Amor l'arco tira, ed empie.

Non temo già, che più mi ftrazj, o fcempie,
Nè mi ritenga, perch' ancor m' invischi;
Nè m'apra il cor, perchè di fuor l' incischi,
Con fue faette velenofe, ed empie.
Lagrime omai da gli occhi ufcir non ponno;
Ma di gir in fin là fanno il viaggio;
Sì, ch' appena fia mai chi 'l paffo chiuda.
Ben mi può riscaldar il fiero raggio,

Non sì, ch'i' arda; e può turbarmi il fonno,
Ma romper no, l' immagine afpra, e cruda.

SONETTO LXIII.

Ragionamento tra il Petrarca, e gli occhi fuoi. A cui fi debba attri buire la colpa, e la cagione dell' amore del Petrarca al cuore, o agli occhi. Il Petrarca difende il cuore.

Occhi, piangete; accompagnate il core,

Che di voftro fallir morte foftene.
Cosi fempre facciamo; e ne convene
Lamentar più l' altrui, che 'l noftro errore.
Già prima ebbe ger voi l'entrata Amore:
Laonde ancor, come in fuo albergo, vene.
Noi gli aprimmo la via per quella fpene
Che moffe dentro da colui che more.
Non fon, com'a voi par, le ragion pari:
Che pur voi fofte nella prima vista
Del voftro, é del fuo mal cotanto avari.
Or quefto è quel che più ch' altro n'attrista;
Ch' e perfetti giudicj fon si rari,
E d'altrui colpa altrui biafmo s' acquista.

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SONETTO LXIV.

Nel luogo, e nell'ora, che s'innamorò già avvenne che vide Laura, e di quefto accidente ne teffe quefto Sonetto. Narra prima come è obbligato a ciascuno particolarmente molto. Pofcia dice effere ftato affalito da tutti infieme: onde per foperchio di ciò cadrebbe morto, fe la fperanza nol softeneffe in vita.

To amai fempre, ed amo forte ancora,

E fon per amar più di giorno in giorno
Quel dolce loco ove piangendo torno
Speffe fiate, quando Amor m' accora:
E fon fermo d' amare il tempo, e l' ora
Ch'ogni vil cura mi levar d'intorno;
E più colei lo cui bel vifo adorno
Di ben far co' fuoi esempj m'innamora,
Ma chi pensò veder mai tutti infeme

Per affalirmi 'l cor' or quindi, or quinci,
Quefti dolci nemici ch' i' tant' amo?
Amor, con quanto sforzo oggi mi vinci!
E fe non ch' al defio crefce la fpeme;
I' cadrei morto ove più viver bramo.

SONETTO LXV.

Addotto il Petrarca in difperazione, defidera effer morto mentre fu felice. E pruova che non verrà mai il tempo felice da po tere morire, dalla natura del tempo che se ne porta via l'op portunità prefentate, le quali non ritornano: e fe pur morrà morrà infelice, morendo nelle miferie.

To avrò fempre in odio la fenestra

Onde Amor m' avventò già mille ftrali,
Perch' alquanti di lor non fur mortali;
Ch'è bel morir mentre la vita è deftra.

Ma 'l fovraftar nella prigion terrestra
Cagion m' è, laffo, d'infiniti mali:
E più mi duol, che fien meco immortali;
Poi che l' alma dal cor non fi fcapestra.
Mifera! che devrebbe effer accorta

Per lunga efperienzia omai, che 'l tempo
Non è chi 'ndietro volga, o chi l'affreni.

Più volte l'ho con tai parole fcorta;
Vattene, trifta; che non va per tempo
Chi dopo laffa i fuoi dì più fereni.

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SONETTO LXVI.

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ed ora per vifta, Per la qual cofa

Per certa fimilitudine di Sagittario, e per le parole formali di Laura pofte dal Petrarca, e prima per arte, conofce il Petrarca effere fedito a morte. ancora dee fapere che per nuove fedite può tormentarlo, ma non ucciderlo più. Volendo tacitamente domandargli, che ceffi dal fedirlo più, poichè in ogni modo morrà.

Si tofto, come avvien che l'arco fcocchi,

Buon fagittario, di lontan difcerne,
Qual colpo è da fprezzare, e qual d'averne
Fede ch'al deftinato fegno tocchi;,

Similemente il colpo de' voftr' occhi,

Donna, fentiste alle mie parti interne
Dritto paffare: onde convien, ch'eterne
Lagrime per la piaga il cor trabocchi.

E certo fon, che voi dicefte allora;

Mifero amante! a che vaghezza il mena?
Ecco lo ftrale ond' Amor vol, ch'e' mora.

Ora veggendo, come 'l duol m'affrena;
Quel che mi fanno i miei nemici ancora,
Non è per morte, ma per più mia pena.

SONETTO LXVII.

Delibera di fuggire da Amore, e duolfi di non effere fuggito prima. Conforta gli altri a fuggire, ma prima che avvampino: che perchè egli fcampi, non avviene però ciò ad ogn' uno.

Poi che mia fpeme è lunga a venir troppo,
E della vita il trapaffar sì corto;
Vorreimi a miglior tempo effer accorto,
Per fuggir dietro più che di galoppo:

E fuggo ancor così debile, e zoppo

Dall' un de' lati, ove 'l defio m'ha ftorto;
Securo omai: ma pur nel viso porto
Segni ch' io prefi all' amorofo intoppo.

Ond' io configlio voi che fiete in via,

Volgete i paffi: e voi ch' Amore avvampa,
Non v' indugiate fu l' eftremo ardore:

Che perch' io viva; di mille un non scampa,
Era ben forte la nemica mia;

E lei vid' io ferita in mezzo 'l core.

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