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SONETTO LXVIII.

Narra a certe Donne come fuggi da Amore una volta; e poi, parte perchè gli difpiaceva la libertà, parte perchè Amore gli tefe infidie, fu imprigionato di nuovo; e che ora con gran fatica ne può fuggire.

Fuggendo la prigione ov' Amor m' ebbe

Molt' anni a far di me quel ch'a lui parve,
Donne mie, lungo fora ricontarve,
Quanto la nova libertà m' increbbe.

Diceami'l cor, che per sè non faprebbe
Viver un giorno: e poi tra via m' apparve
Quel traditor' in sì mentite larve,

Che più faggio di me ingannato avrebbe:

Onde più volte fofpirando indietro,

Diffi: Oimè, il giogo, e le catene, ei ceppi
Eran più dolci che l'andare fciolto.

Mifero me! che tardo il mio mal feppi:
E con quanta fatica oggi mi fpetro
Dell'error' ov' io fteffo m' era involto!

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I.

C

SONETTO LXIX.

Era ftato detto al Petrarca, che la bellezza di Laura a certo tempo non meritava d'effere da lui amata cosi focofamente; perciocchè non era di quel fommo grado, che poteva essere. Il Petrarca dipinge quale ella foffe la prima volta, che la vide; e loda particolarmente i capelli, gli occhi, e 'l vifo, l'andare, e le parole; e generalmente affomigliandola ad uno Spirito Celefte, ed a un vivo Sole. Pofcia dice che però meno non arde, perchè ora non fia tale, come meno non è altri ferito, perchè dopo il colpo l' arco fi ftende.

Erano i

rano i capei d'oro all' aura fparfi,

Che 'n mille dolci nodi gli avvolgea:
E'l vago lume oltra mifura ardea

Di quei begli occhi ch' or ne fon sì scarfi;

E'l vifo di pietosi color farsi,

Non fo fe vero, o falfo mi parea:
I' che l' efca amorofa al petto avea,
Qual maraviglia, fe di fubit' arfi?

Non era l'andar fuo cofa mortale,

Ma d'angelica forma; e le parole
Sonavan' altro, chè pur voce umana,

Uno fpirto celefte, un vivo Sole

Fu quel ch'i' vidi: e fe non foffe or tale;
Piaga per allentar d'arco non fana.

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SONETTO LXX.

Conforta chicchefia dopo la morte della fua Donna a rivolgerfi a Dio. Prima pruova dalla vita, che ella fia in Cielo, laddove il conforta che egli fi dirizzi, lasciando di vaneggiarle dietro e fimilmente lasciando l'altre cure del Mondo; sì perchè per l'efempio della morta Donna vede che fi muore; si perchè non ci rechiamo cofa alcuna con effo noi di questo Mondo.

La bella Donna che cotanto amavi,
Subitamente s'è da noi partita;

E, per quel ch' io ne fperi, al ciel falita;
Si furon gli atti fuoi dolci e foavi.
Tempo è da ricovrare ambe le chiavi

Del tuo cor, ch'ella poffedeva in vita;
E feguir lei per via dritta, e fpedita.
Pefo terren non fia più che t'aggravi.
Poi che fe' fgombro della maggior falma,
L'altre puoi giufo agevolmente porre,
Salendo quafi un pellegrino fcarco.
Ben vedi omai, ficcome a morte corre
Ogni cofa creata, e quanto all'alma
Bifogna ir lieve al perigliofo varco.

SONETTO LXXI.

Per la morte di M. Cino da Pistoja invita a piangere tutti coloro, e quelle cofe che ne fentono danno; Donne, Amore, Amanti, tra quali ripone fe, le Rime, i Cittadini Pistolefi; e conforta il Ciel folo a rallegrarfi, dove è andato.

Piangete, donne, e con voi pianga Amore;

Piangete, amanti, per ciafcun paefe;
Poi che morto è colui che tutto intefe
In farvi, mentre viffe al mondo, onore.

Io per me prego
il mio acerbo dolore,
Non fian da lui le lagrime contefe;
E mi fia di fofpir tanto cortese,
Quanto bifogna a disfogare il core.
Piangan le rime ancor, piangano i verfi;
Perchè 'I noftro amorofo Meffer Cino
Novellamente s'è da noi partito.
Pianga Piftoja, ei cittadin perverfi,
Che perdut' hanno si dolce vicino,
E rallegres' il Cielo, ov' elli è gito.

SONETTO LXXII.

Quefto Sonetto è proemio del feguente.

Nel tempo adunque che il Petrarca era, fe non libero da Amore, almeno non tormentato, ed era lontano dalla vifta di Laura, vide due Amanti fcolorarfi in un punto, e farfi vivi, e morti.. Ora Amore gli diffe più volte, che fcriveffe in Rime care, e pregiate quefto atto ficcome fomma lode d' Amore. E per he il Petrarca pareva che lento fi moveffe ad obbedirgli, gli minaccia di trattarlo male, fe lo può condurre alla prelenza di Laura. Laonde Petrarca compofe il feguente Sonetto, del quale questo è fcufa, e cagione, perchè l' abbia fcritto.

Più volte Amor m'avea già detto: Scrivi,
Scrivi quel che vedefti, in lettre d'oro;
Siccome i miei feguaci difcoloro,

E'n un momento gli fo morti, e vivi.
Un tempo fu che 'n te fteffo 'l fentivi,
Volgare esempio all' amorofo coro:
Poi di man mi ti tolfe altro lavoro;
Ma già ti raggiuns' io mentre fuggivi:

E s'e' begli occhi ond' io mi ti moftrai,
E là dov'era il mio dolce ridutto,
Quando ti ruppi al cor tanta durezza,
Mi rendon l'arco ch'ogni cofa fpezza;
Forfe non avrai fempre il vifo asciutto:
Ch'i' mi pafco di lagrime; e tu 'l fai.

SONETTO LXXIII.

Rende la ragione, perchè un' Amante alla presenza della persona amata impallidifca come morto, e goda alcuna volta di tale impallidire.

uando giugne per gli occhi al cor profondo "L'immagin donna, ogni altra indi fi parte; E le vertù che l'anima comparte, Lascian le membra quafi immobil pondo:

E del primo miracolo il fecondo

Nafce talor: che la fcacciata parte
Da se fteffa fuggendo arriva in parte
Che fa vendetta, e'l fuo efilio giocondo,

Quinci in duo volti un color morto appare:
Perchè 'l vigor che vivi gli moftrava,
Da neffun lato è più là dove stava.

E di quefto in quel dì mi ricordava
Ch'i' vidi duo amanti trasformare,
E far, qual' io mi foglio in vifta fare.

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