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quali tutti, come vien fuppofto, fcrivono me ne, divifo. Noi rifpondiamo, che la famofa Edizione del Rovillio 1574. citata dagli Accademici della Crufca nel loro Vocabolario, e da noi perpetuamente confultata, legge mene; e in ciò ha la ragion dalla fua, effendo quella particella ne enclitica, vale a dire ripofántefi fopra l'antecedente. Il che più chiaro apparifce fe le fi venga a levare l'e finale, e feguiti poi confonante; come io men vado; perchè allora dove mai ha da ripofarfi l'n, quando conveniffe leggerla difgiunta, fecondo il parere de' Critici? di più ne feguirebbe, che doveffe fcriverfi nello fteffo modo anche vomme ne, e non poche altre parole fomiglianti; e nondimeno da tutti faffi il contrario.

Ungroffo errore fu riputato lafciamo in vece di lafciammo nel Son. 204.

v. 2. avvegnachè i buoni tefti de' Giunti 1522. e del Rovillio favorifcano la noftra lezione. Ma chi afficura gli oppofitori, che il PETRARCA abbia pofto quefto verbo in tempo paffato, e non in prefente? È cofa nota infino a' fanciulli, che i poeti hanno coftume l'adoperare il tempo prefente in vece del paffato, e ciò per maggior' eleganza. Non diffe forfe Virgilio nel terzo dell' Eneide v. 124:

per

Linquimus Ortygiæ portus, pelagoque volamus,

quando potea dire comodamente fenza danno del metro Liquimus? e nello fteffo libro v. 10. non diffe pa

rimente :

Litora tum patriæ lacrimans, portufque relinquo,

potendo mettere colla fteffa quantità di fillabe, reliqui? Ora quanto me

glio potè fcrivere il PETRARCA laf ciamo per lafciammo, trattando di cofa avvenuta il giorno avanti, Ivi lafciamo ier lei, e non di accidenti già vecchi di qualche anno, come Virgilio? Ma quando pure fi voglia che il verbo fuddetto fia di tempo paffato, è da faperfi che nelle antiche fcritture tali voci fi offervano fcritte con una fola m.

Leggefi, per esempio, nella Cronica di Buonaccorfo Pitti pubblicata in Firenze l'anno 1720. a carte 25. E la fera tornamo in chafa fua, e l'altro dì montamo a chavallo.

Avendo noi profeffato di ridurre il testo del poeta alla moderna ortografia, ci furono gettate in faccia le voci fore per fuore; core per cuore ; ed altre fomiglianti, andate in difufo; alla quale oppofizione in tal guisa rifpondiamo. Usavano i poeti per lo più di sfuggire il dittongo, e però fcri

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veano ne' lor verfi anzi core, che cuore; penfero, che penfiero; foco, che fuoco; vene, che viene ; ed altre molte maniere fimili. Parve però a noi che sì fatti vezzi d'antichità non foffero da cangiarfi in que' luoghi dove così appunto ftanno fcritti; e dall' altra parte non giudicammo effer fallo alcuno lo fcriver fuore, guerrieri, viene, giufta l'ufo moderno, fecondando in ciò l'incoftanza, e la varietà de' buoni testi.

Ci fu parimente oppofto come un' errore, l'aver noi metso nel Son. 5. v. 9. reverire, in luogo di riverire; e al v. 11. reverenza, in vece di riverenza, contra l'autorità del testo stampato in Venezia dal Bevilacqua 1565. che dagli oppofitori vien creduto l'ottimo. Con buona pace nondimeno di quel tefto, e de' fuoi partigiani, chi

riverire, piglia un granchio de' più folenni; perchè in tal modo viene a guaftare l'allufione del poeta al nome di Lauretta; dicendo egli:

Così LAUdare, e REverire infegna
La voce fteffa

E noi

per

dinotare una tale allufione, facemmo imprimere quelle prime fillabe in carattere majufculo. Laddove leggendofi riverire, bifognerebbe che il nome foffe ftato Lauritta, e non Lauretta. Quando poi fi debba fcrivere reverire, com' è chiariffimo, dee parimente fcriverfi reverenza, continuando la medefima allufione; tanto più che reverenza è voce ammeffa nel Vocabolario della Crufca.

Envio per invio nel Son. 6. v. 5. effere antica maniera, ci rinfacciarono i cenfori; e noi molto di buona voglia il confeffiamo. Temerità non

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