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INTRODUZIONE

CAPITOLO I

Vita carattere.

Partiva da Firenze per l'esiglio, insieme con Dante Alighieri, nel 1302 ser Pietro o Petracco di ser Parenzo, cancelliere alle Rifor magioni, e si ricoverava in Arezzo. La famiglia sua non era però originaria di Firenze ma qui trapiantatasi dall'Incisa di Valdarno, e nonno suo era certo ser Garzo che non aveva disdegnato di accoppiare allo studio delle pandette il culto delle muse. Da ser Petracco e dalla moglie di lui Eletta Canigiani nacque nell'esiglio di Arezzo il 20 Luglio 1304 Francesco, che più tardi corresse e latinizzò il nomignolo paterno di Petracco o Petraccolo in Petrarca. Pochi mesi dopo, la famiglia si trasferiva ancora da Arezzo all'Incisa, dove rimase fino al 1310 aumentandosi di altri due figliuoli, dei quali uno però tosto morì; e in quel primo viaggio il piccino Francesco, appeso per i panni ad un grosso bastone e portato così sulle spalle da un servo, corse pericolo di affogare nel guado dell' Arno, cominciando per tal modo assai presto le sue numerose e talora perigliose avventure di viaggio. Nel 1310 fu condotto a Pisa, dove, al credere di alcuni, attese ai primi suoi studi sotto Convenevole da Prato e dove vide l'Alighieri, e qualche tempo dopo, in data non ancora bene definita, passò con tutta la famiglia oltre le Alpi a Carpentras presso ad Avignone. Quivi frequentò veramente, insieme con Guido Sette o Settimo di Genova, che fu da allora uno dei suoi amici più cari, la scuola di Convenevole, tramutatosi anch'egli in quel luogo, e vi studiò grammatica, rettorica e dialettica; quindi nel 1319 fu mandato a imparare giurisprudenza a Montpellier e più tardi a Bologna, dove si strinse in tenera amicizia con Tommaso Caloria e con Mainardo Accursio ed udi il celebre giurista Giovanni di Andrea. Ma poco egli profittava dello studio delle leggi, essendo tutto vòlto, per in

clinazione d'animo, alla lettura de' classici e al culto delle umane lettere; del che il padre, quantunque esso pure non alieno da studi e da inclinazioni letterarie, fleramente lo rimproverava, giungendo a tale da gettargli un giorno sul fuoco parecchi volumi di Cicerone e di altri scrittori latini, di cui lo aveva scoperto possessore. Alle lacrime del figlio s'indusse a trarne dal rogo due soli: un Cicerone e un Virgilio, per caso i due autori che furono poi i due fari luminosi di tutta la vita intellettuale del Petrarca. Alla morte del padre, cui ben tosto seguì quella della madre, Francesco ritornò nel 1326 ad Avignone, dove, pur avendo preso gli ordini minori, visse vita lieta ed elegante ma non affatto dimentica dei suoi studi prediletti, e dove incontrò, il 6 aprile 1327, nella chiesa di s. Chiara madonna Laura, da lui poi si fortemente amata e sì altamente celebrata nei versi. Chi verisimilmente essa fosse diremo più tardi. In Avignone strinse pure amicizia colla nobilissima famiglia dei Colonna, alla cui protezione egli poi molto dovette. Con Jacopo Colonna andò a Lombez, dove questi era vescovo, e iniziò così la serie interminabile de' suoi viaggi attraverso la Francia, la Germania e l'Italia, dai quali tratto tratto ritornava a riposarsi brevemente ad Avignone. Con Jacopo e con Stefano Colonna appunto fu per la prima volta in Roma nel gennaio 1337; ma della impressione da lui provata alla vista dell'eterna città lasciò pochi e non molto precisi ricordi. In quell'anno stesso gli nasceva, da donna a noi ignota, un figliuolo, a cui pose nome Giovanni e che per le sue giovanili scapestrerie, presto troncate dalla morte, gli fu poco caro. Più affetto invece serbò alla figliuola Francesca natagli alquanto più tardi. Tornato tosto ad Avignone, non vi stette a lungo, ma si rifugiò, fuori da ogni rumore e da ogni corruzione, nella vicina ed amena solitudine di Valchiusa, alle sorgenti del Sorga, e di tal soggiorno tanto si dilettò che ad esso ricorse, ogni qual volta sentiva il desiderio di raccogliersi nella quiete degli studi e nella dolcezza della ispirazione poetica, e lo esaltò e celebrò in versi ed in prose. Ivi, essendo ormai altissima fatta la sua fama, gli giunse la duplice e contemporanea offerta, da Roma e da Parigi, della incoronazione poetica, da lui, a vero dire, cercata e sollecitata alquanto; e di là, avendo egli dato a Roma la preferenza, partì per recarsi a Napoli, dove sostenne alla presenza di re Roberto un lungo esame per venire dichiarato degno di quella laurea, che poi, con solenne cerimonia per mano di un senatore romano fra l'esultanza popolare, gli fu conferita sul Campidoglio il giorno di Pasqua 8 aprile del 1341. Parti tosto da Roma e cercò nuova quiete ed ispirazione nella boscaglia di Selvapiana vicino a Parma, dove compì il poema

dell'Africa, che considerava la sua opera più insigne; e visse quindi per dodici anni alternamente tra la Francia e l'Italia, ora ad Avignone e a Valchiusa, ora a Parma, a Modena, a Bologna, a Verona. In questo lungo errabondo periodo meritano tuttavia nota alcuni fatti importanti della sua vita. Nel 1343 dopo la morte di re Roberto compì una missione diplomatica alla corte di Napoli per conto di papa Clemente VI. Nel 1347 accolse entusiasticamente il movimento politico con cui Cola di Rienzo tentò di restaurare l'antica repubblica romana, anzi si mise in viaggio per recarsi personalmente a Roma; ma, saputo nel cammino il crollo di tante speranze, deviò verso Parma. Il 16 aprile 1348, data da lui stesso scrupolosamente conservataci, apprese in Parma la morte di Laura, spentasi dieci giorni prima, vittima, a quanto pare, della pestilenza. Dopo il 1353 non ritornò più ad Avignone e a Valchiusa, nè pare si sia quivi fermato neanche in occasione del viaggio fatto a Parigi tra il 60 e il 61 ambasciatore politico di Galeazzo Visconti. Po e invece per parecchio tempo ferma stanza in Milano alla corte di quei tiranni oppressori e crudeli, del che fu dai contemporanei e dai posteri più volte biasimato; ma anche là cercò, secondo il solito, tranquillo rifugio ora in una casetta appartata dietro l'antica chiesa di s. Ambrogio, ora sul colle di s. Colombano al Lambro, ora nella campagna di Carignano presso la Certosa, in una villetta che ebbe carissima e a cui pose nome Linterno dal luogo d'esilio di Scipione Africano, ora infine nel monastero di S. Simpliciano. I Visconti lo tennero, più che altro, come ornamento insigne della loro corte e come tale altamente lo onorarono, pur usando dell'opera sua in parecchie occasioni e mandandolo ambasciatore ai Veneziani e all'imperatore Carlo IV e, come dicemmo, a Parigi. Della penna sua si servirono anche per combattere, con non molta coerenza politica da parte del Petrarca, il movimento che frà Jacopo Bussolari suscitava in Pavia sull'esempio di Cola di Rienzo. Nel 1361 abbandonò egli finalmente Milano e stette circa un anno a Padova, passando poscia a Venezia, dove la repubblica gli assegnò un palazzo sulla Riva degli Schiavoni in cambio della biblioteca, che egli aveva promesso di legare per uso pubbli o a questa città. A Venezia stette, fra la pubblica e privata venerazione, circa sei anni, pur interrompendone il soggiorno con frequenti gite a Padova, dove fini per stabilirsi definitivamente nel 1368, cercando però ben tosto rifugio sui vicini colli di Arquà. Un viaggio a Pavia nel 1368 per assistere alle trattative di pace tra Galeazzo Visconti e il rappresentante del papa, un viaggio diretto a Roma per invito del papa ma troncato a Ferrara per improvvisa malattia nel 1370, un viaggio a Venezia

nel 1373 per accompagnare Francesco Novello a far atto di sommissione alla Repubblica, turbarono la quiete del poeta anche in quest'ultimi anni di vita, allietatagli però dalla compagnia della figliuola e del genero, dagli studi non mai tralasciati e dalla preghiera. In Arquà morì la notte dal 18 al 19 luglio 1374, secondo alcuni improvvisamente reclinando la testa sur un libro nel suo studio, secondo altri di brevissima malattia nel suo letto. La sua spoglia mortale fu sepolta dapprima provvisoriamente nella chiesa di s. Maria di quel paesello e poco dopo, contrariamente alla sua volontà, sulla piccola piazza dinanzi alla chiesa stessa, in una tomba marmorea erettagli dalla pietà della figlia e del genero; e sulla tomba furono incisi i seguenti versi da lui stesso già composti per proprio epitafio:

FRIGIDA FRANCISCI LAPIS HIC TEGIT OSSA PETRARCE.

SUSCIPE VIRGO PARENS ANIMAM. SATE VIRGINE PARCE.
FESSAQUE IAM TERRIS COELI REQUIESCAT IN ARCE.

Ma la ammirazione dei posteri non lasciò al poeta, neppur dopo morto, quella pace che la irrequietudine sua e l'ammirazione dei contemporanei gli avevano negato vivente. Nel 1630 un prete ed alcuni contadini, forse avvinazzati, ruppero l'urna in uno spigolo e vi introdussero una fiaccola per poter vedere il Petrarca, rubando quindi parecchie ossa dello scheletro; e peggio assai fece la constatazione giudiziaria che seguì a questa prima manomissione. Più recentemente poi, ora a causa di restauri, ora col pretesto di indagini scientifiche, quella tomba fu più volte violata, talchè quasi più nulla adesso rimane di quelle spoglie preziose.

Fu il Petrarca alto di statura, nobile di persona, di faccia tondeggiante ed alquanto delicata, non molto robusto ma agile e svelto; ebbe i capelli di color tendente al rossiccio, che egli teneva in gioventù assai accuratamente acconciati, come amò sempre elegantemente e da principio anzi affettatamente vestire. Quantunque più volte egli lamenti di aver cominciato assai presto ad incanutire, non sembra tuttavia che egli sia mai dive nuto intieramente bianco, essendosi trovati rossi i suoi capelli anche più secoli dopo morto. Parecchi ritratti ci rimangono di lui, ma il più autorevole sembra essere quello dato dalla miniatura del ms. naz. parig. 6069 F del De viris illustribus. Un ritratto pure in miniatura, che precede l'Epitome virorum illustrium in un manoscritto di Darmstadt e che riproduce nella sua forma originaria un affresco della Sala dei Giganti nell'antico palazzo dei Carraresi di Padova (ora Biblioteca dell'università), è verisimilmente della fine del sec. XIV, ma può credersi riproduca abbastanza fedelmente le sembianze del poeta nella

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sua ultima vecchiezza; quello esistente in affresco nella gran sala del Vescovado di Padova e tolto da una casa che la tradizione riteneva del Petrarca, ha pure molte e buone testimonianze in proprio favore. Gli altri sono, la maggior parte, o di dubbia fede o troppo tardi. Anche le medaglie coniate in suo onore non principiano che colla seconda metà del sec. XV.

Molti e affezionati assai furono gli amici del P., che egli ricam biò con uguale intensità di sentimento, ammantata tuttavia qualche volta di retorica magniloquenza. Principi, re, cardinali, dogi, letterati, umili persone si vantarono di essere in famigliare e stretta relazione con lui; ed egli a tutti scriveva, a tutti offriva i propri servigi, tutti teneramente consolava nelle avversità, taluni soccorreva del proprio, giungendo persino a mandare in pegno a tal fine i propri libri più preziosi. Fra i più intimi dobbiamo ricordare Lodovico di Campinia (Kempen) e Lello de Lelii che egli, per quella sua passione dei nomi e delle cose antiche, avea battezzati per Socrate e Lelio, ricordando così in quest'ultimo il fedele amico del suo eroe prediletto Scipione l'Afri cano. Fatta di devozione e di riconoscenza pei beneficii ricevuti fu l'amicizia per i Colonna, quantunque questa siasi venuta più tardi, per urto di sentimenti politici, alquanto raffreddando; fraterno invece sino alla fine della vita ebbe il P. l'affetto per Gio. Boccaccio, il quale serbò sempre per lui non minore venerazione che per Dante Alighieri. Ma vera assoluta comunione d'anime fu quella che legò Francesco a suo fratello Gherardo, minore a lui di qualche anno, compagno dei suoi studi e delle giovanili leggerezze, ritiratosi poi a santa vita verso il 1343 nel monastero di Montrieux.

Ne l'esempio del fratello restò senza effetto sull'animo del P., il cui vivissimo sentimento religioso, fervido già nei primi anni, andò per questo fatto e col progredire dell'età facendosi mano mano sempre più intenso. Racconta egli stesso nelle sue lettere e in altri suoi scritti, che soleva alzarsi a mezzanotte per recitare le laudi della Vergine e dei santi provandone assai grande dolcezza, che digiunava ogni venerdì con pane e con acqua e che recitava ogni giorno l'uffizio divino; inoltre compose egli stesso delle preghiere invocando sopra di sè ogni tormento in espiazione delle proprie colpe. Tuttavia ciò non è in lui senza gravi e continue contraddizioni. Accanto alla cieca remissione nel dogma noi troviamo in lui la negazione assoluta di ogni fede filosofica e storica; più volte egli dichiara di dubitare di tutto, di non aver più nessuna credenza, di non ritener per vero non solo nessun sistema filosofico ma nemmeno nessun ricordo storico, « fatta sempre eccezione per ciò di cui sarebbe sacrilegio il dubitare ».

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