網頁圖片
PDF
ePub 版

autografo, che ci fu, per somma fortuna, conservato, e che esiste, insieme cogli autografi del Canzoniere e dei Trionfi, nella Biblioteca Vaticana sotto il n. 3358 lat. Chi siano stati i più antichi possessori di questo autografo non sappiamo; il primo, di cui abbiamo notizia, fu Bernardo Bembo, che lo lasciò al figliuol suo il celebre Pietro, divenutone poi geloso custode; ma Torquato, figlio di Pietro e scialacquatore delle ricchezze paterne, vendette anche questo a Fulvio Orsini, il quale, morendo, lo legò, insieme con tutti gli altri suoi libri, alla Vaticana. È questo un manoscritto membranaceo di piuttosto piccole dimensioni (mm. 160

112) composto di 53 fogli, sui quali è trascritto di mano del poeta il Bucolicum carmen colla data di Milano 1357, ma con molti pentimenti e mutamenti ed ampliamenti dal poeta stesso più tardi e in più volte introdotti quasi ad ogni pagina o, mediante grafici richiami, accodati in fine dell'opera, tanto che gli ultimi si possono ritenere dell'anno 1362 o 1363. Cosí il manoscritto vaticano ci rappresenta veramente l'ultima redazione delle Egloghe. Una redazione anteriore invece, e perciò assai importante, fu scoperta con molto acume dall'Avena nel manoscritto VIII G. F. della Nazionale di Napoli, il quale può considerarsi, se non l'originale, almeno copia di quell'esemplare che nel 1359 il Petrarca aveva mandato in dono al suo amico Simonide. Esso dunque rappresenterebbe il testo originale delle Egloghe, quale si trovava anche nel codice vaticano prima delle liture e delle correzioni in esso dall'autore praticate. Altri manoscritti importanti non mancano, come ad esempio lo Strozziano 141, esemplato forse dal Niccoli disopra l'autografo, ma il pregio loro, come si disse, è di fronte ai due precedenti affatto secondario.

Molte furono anche, ma ben lungi dall'essere rigorosamente corrette, le edizioni; nel solo secolo XV, se ne contano otto, di cui la più antica porta la data di Colonia 1473. Recentemente, per il sesto centenario della nascita del poeta e a cura di un Comitato costituitosi in Padova, fu pubblicato criticamente il testo dell'autografo dal dott. Antonio Avena, insieme con alcuni dei principali commenti e con una lunga e dotta prefazione bibliografica, alla quale abbiamo attinto buona parte delle notizie qui sopra esposte. Così anche le Egloghe si possono finalmente leggere come veramente il poeta voleva ci fossero note. Accenneremo da ultimo ai numerosi volgarizzamenti che di esse si fecero nel secolo XIX, il primo dei quali pubblicato in Milano nel 1829 si deve a diversi scrittori di quel tempo come l'Arici, il Gargallo, il Testa, l'Adami. Una traduzione in francese ne pubblicò nel 1891 Victor Develay.

MOSCHETTI. Petrarca.

IV

CAPITOLO VIII

Le epistole in verso ed in prosa.

Comprese insieme con le Egloghe sotto l'unico titolo di Poëmata minora e per certi aspetti a quelle affini sono le Epistole poetiche del Petrarca. Nei manoscritti e nelle stampe antiche esse sono divise in tre libri, dei quali il primo contiene 14 componimenti, il secondo 19 ed il terzo 34; ma la lunghezza d'essi componimenti è assai varia, tanto che può andare da 6 versi, come nella 11a del libro I (Ad ignotum quendam) sino a più di 300 come nella 15 del 1. II (Johanni de Columna cardinali). Quale sia il criterio seguito nell'antico ordinamento non sappiamo, non fu quello cronologico; sistematicamente invece le distribui nella più recente completa edizione il Rossetti (Milano, 1829–34) aggruppandole per nome di destinatario, ma anche questo suo criterio non è privo di danni e di difficoltà, per il che tuttora si preferisce fare le citazioni secondo l'ordinamento originale. Le epistole metriche del resto sono, fra tutte le opere del Petrarca, le meno studiate ed ancora attendono chi le illustri seriamente.

certo

Come suole avvenire per questo genere di componimenti, vario assai è il loro contenuto e ricco il materiale che esse recano alla biografia del poeta. Mentre talune parlano di piccoli fatti e di occupazioni giornaliere o promettono qualche visita agli amici, altre narrano della vita agreste che il poeta co..duce nella sua Valchiusa, altre esprimono con sincera veemenza, più forse che nei versi stessi volgari, il suo amore per Laura, altre esaltano le bellezze e le glorie della terra italiana, altre infine suonano acerba rampogna ai pontefici che vivono lontani dalla sede gloriosa di s. Pietro. Sopratutte notissime, così che appena occorre qui di ri cordarle, sono la epistola 7.a del libro I diretta a Jacopo Colonna, nella quale egli disfogava tutta la piena della sua passione amorosa insoddisfatta e descriveva i propri indicibili tormenti, e la brevissima epistola 24a del libro III (appena 18 versi) con cui egli salutava, divinamente inspirato, la patria, quando ad essa dalla Francia ritornava col proposito di non allontanarsene mai più. Numerosi poi sono i personaggi a cui egli le epistole indirizza, dei quali alcuni altissimi per posizione sociale, come i papi Benedetto XII e Clemente VI o re Roberto di Napoli o Mastin della

Scala o Luchino Visconti, altri suoi amici come Giovanni e Jacopo Colonna o Giovanni Boccaccio o Barbato di Sulmona o Lelio, altri infine persone poco note od ignote e spesso anche innominate.

Immeritata davvero è la trascuranza toccata alle epistole da parte degli studiosi del poeta, giacchè esse, se non hanno sempre la solenne ispirazione dell' Africa nè l'aristocratica artifiziosa veste delle Egloghe, pure serbano una semplicità e spontaneità di concetto ed una freschezza di forma che le rendono al moderno lettore assai più piacevoli, mentre in esse il poeta ci si rivela in una intimità quasi famigliare che ne seduce e ne interessa. Nè a renderle maggiormente gradite poco giova un certo carattere idillico dolcissimo, di che esse si rivestono per essere state scritte appunto, gran parte, nella solitudine di Valchiusa e per esprimere i sentimenti del poeta mentre in quella solitudine viveva; il qual carattere talora si accentua per un trasparente velo mitologico o allegorico di che il poeta qua e là non disdegna servirsi. Forse per ciò esse sono i soli componimenti latini del Petrarca, che potrebbero in parte adattarsi ad una versificazione italiana, quantunque l'esperimento fattone fare dal Rossetti a molti letterati del suo tempo (nella edizione sopra citata) non molto possa servire di incoraggiamento.

Assai studiate invece, specialmente in questi ultimi anni, furono e sono le lettere in prosa. Il Petrarca fu forse il più fecondo epistolografo che abbia avuto l'Italia, certo il primo che fece della lettera, a mo' dei latini, un vero componimento d'arte, indipendentemente dal fine pratico a cui essa poteva in sul momento essere rivolta. Tale carattere artistico, sempre mantenuto, e la ricca erudizione classica, di che esse andavano pompose e che era del resto, come vedemmo, una delle forme essenziali dell'arte stessa del Petrarca, resero quelle lettere ben presto ammirate e avidamente ricercate dai contemporanei, i quali arrivavano persino a trascriverle o ad intercettarle. D'altro canto il poe a, conscio della universale ammirazione, tanta maggior cura e studio in esse poneva e tanto maggiormente egli stesso mostrava, pur senza confessarlo, di pregiarle col serbarne copia o coll'esigere talvolta che dopo lette gli venissero restituite. E finalmente nel 1359, come da una d'esse lettere appare la qual serve di proemio alla raccolta, pensò di mantenere una vecchia promessa fatta agli amici e di dar ordine anche a questa categoria dei suoi scritti. Ma narra egli che in sul principio, malagevole riuscen dogli l'attuazione del suo proposto, molte di quelle lettere prendesse e gettasse sul fuoco e che solo una parte alcuni istanti più tardi, pentito, ne riuscisse a salvare. Di questa parte sarebbe fatta appunto la prima sua raccolta. Ma probabilmente il racconto del

Petrarca, a cui piaceva d'abbellire di particolari fantastici ogni atto della sua vita, non è da prendere alla lettera, e in esso noi dobbiamo vedere soltanto la conferma di una cernita fatta dal poeta, non senza attenzione e diligenza, di tutto il suo materiale epistolare, una parte del quale, o per una o per altra ragione,' fu da lui condannato alle fiamme. Talchè anche dall'epistolario noi non sappiamo del Petrarca se non quanto a lui piacque di farci sapere. E ciò è confermato anche dal fatto che nessuna lettera di lui ci rimane, la quale tratti veramente di faccende private, mentre di queste pare che egli scrivesse, brevemente e parcamente, in volgare. Che se taluna lettera volgare a lui venne talvolta attribuita, la critica fece ben presto giustizia sommaria di tali cervellotiche o maliziose attribuzioni. Non è a credere tuttavia che anche nelle epistole egli non dia notizie di sè e dei suoi amici e che molte anzi di queste notizie non ci siano preziose per la ricostruzione della sua biografia, ma l'intonazione è generalmente cattedratica e retorica e ben di frequente l'epistola riveste l'aspetto di un'orazione o di un trattato; anzi taluna è un vero e proprio trattatello o morale o letterario o politico.

La prima raccolta, cominciata a compilare nel 1359 e intitolata: De rebus familiaribus, fu da lui stesso divisa, giusta l'osservazione del Polentone, in 24 libri e comprende 347 lettere distribuite in un'ordine cronologico (non sempre però strettamente osservato) che va dal 1326 fino al 1361 e più oltre ancora. Nel 1361, accorgendosi che ormai la mole di questa raccolta era oltre misura cresciuta, deliberava il Petrarca di iniziarne una seconda, nella quale avrebbe inserite mano mano tutte le lettere che da allora in poi sarebbe venuto scrivendo. E questa seconda raccolta, detta delle Seniles e da lui dedicata all'amico Simonide come già a Socrate la prima, va naturalmente dal 1361 fino al 1374, anno della morte del poeta, e comprende 125 lettere distribuite in 17 libri. Altre due minori raccolte poi a queste si aggiungono; l'una, dal poeta detta Sine titulo, comprende venti o ventuna lettere che, per trattare con soverchia libertà di linguaggio dei mali della chiesa e della corruzione dei prelati, ei non volle si sapesse a chi erano state indirizzate, l'altra formata di tutte le lettere non comprese nelle raccolte precedenti e lasciate dal poeta stesso prive di alcuno ordinamento: extra ordinem avulsae; e questa è generalmente chiamata delle Varie, le quali sommano a 65, formano un sol libro e vanno dal 1335 al 1373.

Non è da credere tuttavia che la distinzione cronologica fra la raccolta delle Famigliari e quella delle Senili sia stata dal Petrarca scrupolosamente osservata. Anzi tutto si nota che talune

lettere da lui scritte dopo il 1361, il qual anno avrebbe dovuto segnare il confine di tempo fra l'una e l'altra serie, furono da lui, o per uno o per altro motivo, inserite neila prima anzi che nella seconda. Ma c'è ancora di peggio assai. Quantunque il Petrarca, con quel vezzo a lui abituale anche per le Rime volgari, ostentasse di non dar soverchia importanza alle proprie lettere ed asserisse che esse gli erano spontaneamente uscite dalla penna così come poi le aveva raccolte, è certo invece che egli le ricorresse e le rimaneggiò a tal punto da inserire in parecchie accenni e notizie di fatti storici avvenuti molti anni dopo la data segnata in calce alla lettera stessa. Così l'ordine cronologico ne veniva ancor più gravemente violato. Di tali rimaneggiamenti è una prova lampante, come ha dimostrato, or'è poco, il Cochin, in ms. 8568 della Biblioteca nazionale di Parigi, il cui testo tante e tanto notevoli differenze presenta di fronte al testo pubblicato dal Fracassetti.

Da quanto sin qui dicemmo ben si capisce che l'importanza biografica delle lettere del Petrarca, pur essendo sempre assai grande, non è però quale saremmo in diritto di attenderci da così copiosa raccolta di simili componimenti. Se numerosi sono i dati storici che da esse raccogliamo intorno a lui, ai suoi viaggi, ai suoi studi e agli amici suoi, ben raramente invece ne avviene di cogliervi il Petrarca nella piena confidente intimità della vita, spoglio di quel paludamento classico e retorico e un po' anche teatrale, in che egli amava di avvolgersi e di presentarsi alla ammirazione dei contemporanei e dei posteri. Anche quando scrive le sue lettere, egli ha sempre presente al pensiero il modello di Cicerone e di Seneca, i più ammirati epistolografi dell'antichità, e come essi egli desidera di apparire il moralista del proprio tempo. Inoltre quel lusso eccessivo di erudizione classica, che ai suoi tempi era una novità e come tale assai piaceva, ma che toglieva spesso ogni spontaneità di ispirazione e di sentimento al dettato, impedì ai posteri sovente di gustare anche la parte non dottrinale di quegli scritti. Le lettere del Petrarca rimangono tuttavia come il primo glorioso esempio di tal genere di componimento in Italia e furono il modello su cui poi si plasmarono nei secoli seguenti tanti epistolari eruditi.

Delle lettere del Petrarca non ci rimane una copia autografa completa, giacchè quegli autografi che si conoscono contengono l'una o l'altra parte soltanto dell'epistolario. Preziosissimo fra tutti è il cod. 35 plut. LIII della Laurenziana composto tutto di lettere autografe, serbanti ancora gli indirizzi, le sottoscrisizioni, i sigilli e le piegature. Molti invece sono i manoscritti apografi, dei quali i più importanti il Colbertino 8568 della

« 上一頁繼續 »