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5. E, perchè un poco nel parlar mi sfogo,
Veggio la sera i buoi tornare sciolti
Da le campagne e da' solcati colli;
I miei sospiri a me perchè non tolti
Quando che sia? perchè no 'l grave giogo?
Perchè dì e notte gli occhi miei son molli?
Mis ro me! che volli,

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Quando primier s) fiso
Gli tenni nel bel viso,

Per iscolpirlo, imaginando, in parte
Onde mai nè per forza nè per arte
Mosso sa: à, fin ch'i' sia dato in preda
A chi tutto diparte?

Nè so ben anco che di lei mi creda.

Canzon, se l'esser meco

Dal mattino a la sera

T'ha fatto di mia schiera,

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Reminiscent я Джита

Tu non vorrai mostrarti in ciascun loco;
E d'altrui loda curerai sì poco,

Ch'assai ti fia pensar di poggio in poggio
Come m' ha concio 'l foco

Di questa viva petra ov'io m'appoggio.

-

crescendo. -57. Perchè un poco, ecc. In- |
tendi: E, continuando a dire, poiché par
jando un poco misfogo, ecc.-58. Sciolti.
Senza il giogo. 60. Non tolti. Bellissima
eilissi del verbo: sono.-61. Giogo. Ha qui
doppio senso quello proprio del giogo
dei buoi, quello metaforico del giogo
d'amore. 63. Che volli. Che cosa
volli mai io. 66. Per iscolpirlo, ecc.
Per scolpirio col pensiero (imaginan
do) nel mio cuore (in parte), da dove
non potrà più essere cancellato (mosso)
ne colla forza nè coll'astuzia (per arte).
68. In preda a chi tutto diparte. In
braccio alla morte, che tutto separa e
distrugge. 70. Nè so ben anco, ecc.
E ancora non so bene che cosa credere |
della morte, cioè non sono ben sicuro
se ella valga a distruggere questo mio
amore. 71. L'esser meco dal mattino alla
sera. Lo star sempre meco. Con ciò il p.
alluderebbe alle lunghe e diligenti cure
da lui date a questo componimento. Al-
tri intendono che egli voglia dire di
averla composta in una giornata, ma, | alla pietra.

70

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oltre che ne parrebbe assai difficile,
specialmente conoscendo il modo di
poetare del P, mal s'accorderebbe nel
senso con ciò che segue, chè, un sol
giorno di consuetudine, non basta a
creare quella comunanza di vita a cui
metaforicamente allude il p. 73. Di
mia schiera. Simile a me, cioè triste
come me. 76. Assai ti fia. Ti basterà.
Di poggio in poggio. Può forse inten-
dersi come allusione alla selvatichezza
della vita solitaria che il P. conduceva;
ma più probabilmente si accenna al
viaggio che allora egli stava compiendo.
-77. Come m'ha concio. In che stato mi ha
ridotto. - Il foco di questa viva petra.
L. è pietra perchè fredda e dura verso
il P. e pietra viva sia per la sua mag-
gior durezza, sia perchè persona viva;
e da questa pietra esce, come dailá
selce, il fuoco cioè l'amore che arde
il p. -78. Ov'io m'appoggio. Come sta
sempre fisso col pensiero in L., cosi,
metaforicamente, finge d'appoggiarsi

LI

Se L. si fosse di più avvicinata a lui, egli si sarebbe trasformato in una pietra delle più dure e almeno così sarebbe liberato dal suo tormento. Il Castiglione suppone e il Carducci crede con lui che questo sonetto sia stato fatto per risposta al

sonetto scrittogli da un amico che vide il p. fuggire L.; ma anche questa è una delle tante ipotesi prive di fondamento, ché nel sonetto non c'è ombra d'accenno a tal cosa nè altro argomento se ne potrebbe trovare se non in talune delle rime, che sono alquanto strane.

Poco era ad appressarsi a gli occhi miei
La luce che da lunge gli abbarbaglia,
Che, come vide lei cangiar Tessaglia,
Così cangiato ogni mia forma avrei.

E s'io non posso transformarmi in lei

Più ch'i' mi sia (non ch'a mercè mi vaglia),
Di qual petra più rigida s'intaglia,
Pensoso ne la vista oggi sarei,

O di diamante, o d'un bel marmo bianco
Per la paura forse, o d'un diaspro
Pregiato poi dal vulgo avaro e sciocco;
E saria fuor del grave giogo ed aspro,
Per cui i ho invidia di quel vecchio stanco
Che fa co le sue spalle ombra a Mar(r)occo.

4

8

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questa paura o tremore più volte parlò già il p., e fu essa motivo comune ai poeti del tempo ed ai loro precessori.

t. Poco era. Mancava poco che L. si avvicinasse alla mia vista. — 3. Come vide, ecc. Laura è sempre tutt'una con Dafne e col lauro; come dunque Tessaglia vide Dafne mutarsi nel lauro, cosi, ecc. 5. E sio. E sebbene io. 6. Più ch'i mi sia. Il p. è talmente immedesimato con L. che egli non potrebbe di più trasformarsi in lei. A mercè mi vaglia. Mi serva ad ottenere pietà. 7. Di qual pietra, ecc. ecc. Sarei oggi una statua di aspetto pensoso (pensoso nella vista) di quella pietra che è più dura ad intagliarsi. 10. Per la paura forse. Dipende soltanto da bianco: di un marmo fatto forse bianco per la paura da me sofferta all'avvicinarsi di lei. Digisse il poeta.

Diaspro. Pietra preziosa. - 13. Per cui i' ho invidia, ecc. Tanto grave ed aspro è quel giogo che il p. invidia persino Atlante che, portando sulle spalle il mondo, porta un peso minore del suo e, trasformato in montagna, fa ombra colle spalle a Marocco. Questo è certamente il senso dei due ultimi versi ; non che p. invidii Atlante per il desiderio di essere trasformato in montagna come lui; che di tal desiderio non si parla nel sonetto, mentre anzi pare che dal mutarsi in pietra rifug

LII

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Diana nuda non piacque di più ad Atteone di quello che sia piaciuta L. al poeta, quando un dì la vide bagnarsi nell'acque. Taluno credette che questo madrigale, vera gemma della corona petrarchesca, fosse composto per la serva che lavava i panni di L. e tal altro per una vera pastorella, capricciosamente e brevemente amata dal p. Eppure quel verso: ch'a l'aura il vago e biondo capel chiuda, dove c'è il solito bisticcio sul nome della donna e l'accenno ai biondi capelli di lei, sarebbe dovuto bastare a far ravvedere ogni errante. Ma oggi tutti coloro che non son ciechi s'accordano nel riconoscere anche questo madrigale composto per L. Io poi sono pienamente d'accordo con quei pochi che qui vedono un nuovo accenno a quel bagno preso da L. in una fonte o in un fiume, al quale assistette, dapprima non visto, il p., di cui è ricordo nella canzone XXIII, e che fornisce il soggetto, senza alcun dubbio per conto mio, all'altra celebre canzone CXXVI delle chiare fresche e dolci acque. E difatti, per restringerci qui a dire del madrigale: o che L. andava a lavarsi i panni alla fonte, L. figlia e moglie di nobili e ricchi signori di Avignone? E che ci sarebbe stato di bello in quest'atto della aristocratica lavandaia da esaltarlo in versi? sopratutto che senso comune avrebbe il paragone di Diana nel bagno, tirato in campo dal p.? Diana. tuffantesi nuda nelle fresche acque del fonte, non piacque più ad Atteone di quello che a me piacesse L. che si lavava un velo; ci si pensi un solo istante e si vedrà che il p. non poteva dire di simili cose sconclusionate. Ma la certezza, che si tratti di un bagno, risulta dal confronto colla strofe 8 della

canzone XXIII, dove del bagno, si parla spiattellatamente e senza ambagi. Difatti il ricordo di Diana e di Atteo ne impera anche in questa strofe, sebbene non sia espresso in modo diretto, e L. è chiamata cruda come la pastorella del madrigale, e finalmente, si noti bene, ci troviamo, nel maggior fervore dell' estate: quando il sol più forte ardea dice la canz., or quand' egli arde il cielo, dice il madrig. E dovrebbe bastare quest'ultima coincidenza a togliere ogni velleità ai contradditori, chè, se l'accenno agli eccessivi calori dell'estate, è opportuno anzi necessario nel parlare di un bagno all'aperto, nel raccontare invece che L. si lavava un velo, non so vedere come ci entrerebbe. Ma che a ha fare poi il velo nella scena di un bagno, si chiederà? Ma il velo non è che il corpo di L.; Qual a vedere il suo leggiadro velo, proprio leggiadro velo dice nel sonetto CCCXIX intendendo certamente del corpo. Qui però, volendo inserire in qualche modo, col solito bisticcio, un'allusione al nome di L., il p. continuò l'idea del velo, fingendo fosse uno di quelli di che le donne sogliono coprire e cingere i capelli, perchè l'aria non li scompigli, e noi sappiamo che L. stessa lo portava; ma la allegoria finisce alla parola velo.

Non al suo amante più Diana piacque
Quando, per tal ventura, tutta ignuda
La vide in mezzo de le gelide acque;
Ch'a me la pastorella alpestre e cruda,
Posta a bagnar un leggiadretto velo,
Ch'a l'aura il vago e biondo capel chiuda;
Tal che mi fece, or quand'egli arde 'l cielo,
Tutto tremar d'un amoroso gielo.

1. Al suo amante. Ad Atteone, che vide Diana nuda bagnarsi nel fonte e fu da lei mutato in cervo. - 2. Tal. È riempitivo. 4. Ch'a me. Il che dipende dal più del primo verso. Pastorella. La scena del bagno si svolse, come si ricava dalla due canz. citate, in mezzo a monti ed a boschi; è naturale quindi

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che il p. chiami L. pastorella alpestre. 5. Posta. Che stava. 6. A l'aura. Il solito bisticcio per coprire, pur lasciandolo trasparire, il nome dell'amata. Chiuda. Congiuntivo ad indicare il fine. Il velo chiude i capelli dall'aria e a Laura insieme. 7. Or quando egli arde il cielo. Egli è un riempitivo.

LIII

« 1:0 Signore valoroso, accorto e saggio, io mi rivolgo a te, perchè altrove non vedo raggio di virtù, e ti invito a svegliare dal suo sonno l'Italia. 2: Che si desti da sè non spero, ma ho fiducia nelle forti tue braccia che possono scuoterla e sollevarla dal fango. 3: Le rovine dell'antica grandezza romana sperano di essere da te ristorate, e i Scipioni e Bruto e Fabrizio s'allegrano. 4: E le anime dei santi ti pregano di por fine agli odi civili e alle continue turbolenze. 5: Le donne, i bimbi, i vecchi, i religiosi invocano il tuo aiuto, e tu puoi, spegnendo poche faville, spegnere l'incendio. 6: Ora le famiglie combattono le famiglie, e son già passati più di mille anni dalla morte di coloro che avean fatto Roma così grande. 7: Difficile è l'impresa che da te s'aspetta, ma nessuno ebbe mai simile occasione per rendersi immortale. 8: Canzone, di' a quell'onorato cavaliere che sta in Campidoglio: Uno, che non ti conosce se non per fama, ti dice che Roma invoca il tuo aiuto. » Ardua è la questione, da secoli dibattuta e non ancora del tutto risolta, intorno alla persona, cui questa canzone fu diretta; noi cercheremo qui di riassumerla quanto più brevemente e semplicemente ci sia possibile, premettendo, come necessaria avvertenza, che ogni dato cronologico sicuro ci manca intorno a questo componimento, e che tale circostanza ha favorito e favorisce lo sbizzarrirsi dei critici nelle loro, spesso ipotetiche, attribuzioni. E le attribuzioni proposte son cinque: a Cola di Rienzo, a Stefano Colonna il giovine, a Stefano Colonna il vecchio, a Paolo Annibaldi, a Bosone da Gubbio. L'attribuzione al tribuno Cola fu messa fuori nel 1523 dal Vellutello e da allera, sino a pochi decenni or sono, accettata quasi universalmente senza discussione. L'attribuzione ad un senatore romano è invece assai remota e quasi contemporanea al P., ma il nome di Stefanuccio Colonna non fu proposto se non nel 1764 dall'ab. de Sade, a cui poi altri aderirono, e propugnato ai nostri giorni con assai copia d'argomenti dal Carducci (Saggio, 1876); ma questi argomenti venivano ribattuti da A. D'Ancona (Del personaggio al quale è diretta la canz. ecc., in Studi di critica e st. lett., Bologna 1880) e da Fr. Torraca (Cola di R. e la canz. « Spirto gentil » in Arch. rom. dist. p.,

VIII, 141 sgg.), ambedue i quali ripresero a difendere, ma pur senza o tenere indiscussa vittoria, il nome di Cola. Per Cola poi si schierò anche Vitt. Cian (Atti d r. Accad. d. Sc. di Torino, XXVIII, 1893), il quale suppose tuttavia che la canzone, prima dedicata al tribuno, venisse più tardi rimaneggiata dal p, e dedicata ad un futuro e ipotetico redentore d'Italia; ma la sua tesi, pur bene difesa, non resiste alla critica. Con uguale anzi più scarsa fortuna Adolfo Borgognoni cercò di sostituire a Stefanuccio Stefano Colonna (La canz. Spirto gentil, Ravenna, 1886), mentre sin dal 1879 Franc. Labruzzi aveva proposto, ma senza trovare gran seguito, il nome di Paolo Annibaldi che fu rettore di Roma nel 1335 (Un atro pretendente, etc. in Riv. eur). Finalmente Adolfo Bartoli sull' autorità di antichi numerosi manoscritti, taluno dei quali risale al principio del '400, propo neva Bosone d'Agobbio che fu senatore di Roma l'anno 1337 (Domenica del Fracassa, 1885, 2). Contro l'attribuzione a Cola di Rienzo stanno inesorabilmente due punti della canzone stessa: quello dove si accenna in forma laudativa alla famiglia Colonna, che era tanto nemica al tribuno, e quello dove il p., in sulla chiusa, dichiara di non aver ancora mai veduto ma solo di conoscere per fama la persona cui egli dirigel suo canto, mentre sappiamo che, ben parecchio tempo prima che Cola salisse al tribunato, il p. lo aveva conosciuto e gli si era fatto amico. I critici hanno tentato in più modi di dare una spiegazione ragionevole a quelle parole: un che non ti vide ancor da presso, ecc. la quale si conciliasse colla preesistente amicizia del P. e di Cola, ma ogni loro sforzo fu vano. Contro l'attribuzione a Stefanuccio ed a Stefano Colonna, oltre minori obiezioni, vale principalmente quest'ultima stessa obiezione; giacchè, dimostrata erro ea dal D' Ancona la credenza che Stefanuccio sia stato eletto senatore nel 1335 e provato che egli non occupò tale carica se non nel 1342, noi abbiamo la certezza provata che ben prima il p. lo avea personalmente conosciuto, come prima ancora avea conosciuto Stefano, il quale fu senatore solo nel 1339. Prove negative di fatto contro la candidatura dell'Annibaldi non sussistono, ma nessun codice e nessun commentatore, prima del Labruzzi, hanno fatto il suo nome; inoltre non par ammissibile che il p., dirigendosi ad uno che vantava la sua discendenza da Annibale, citasse proprio Annibale come esempio tipico di empietà (Ch'Annibale, non ch' altri, farian pio), e lo incitasse a disperdere orsi, lupi, leoni, aquile e serpi, cioè le famiglie che tali insegne accampavano sullo stemma, mentre pr prio l'Annibaidi aveva il suo stemma caricato di due leoni passanti di rosso in campo d'argento. Rimane dunque Bosone, il solo che abbia per sè la testimonianza antica de' manoscritti, il solo contro cui non siano ancora state elevate serie obiezioni, poeta, erudito, podestà ad Arezzo, a Viterbo, a Lucca, a Todi, vicario imperiale in Pisa e finalmente eletto con Jacopo Gabrielli senatore di Roma il 15 ottobre 1337, degno veramente d'essere chiamato un cavalier che Italia tutta onora. El ormai la maggior parte dei critici si son dichiarati in suo favore: il Borgognoni, il D'Ovidio, il Pakscher, il Pieretti, il Cesareo ed il Mestica. La canzone dunque sarebbe da riportarsi alla fine del 1337, bene accordandosi così cogli altri componimenti a lei vicini, dei quali quelli, di cui conosciamo o indoviniamo la data, sono appunto, come vedemmo, di questo tempo.

1.

Spirto gentil, che quelle membra reggi
Dentro a le qua' peregrinando alberga
Un signor valoroso, accorto e saggio,
Poi che se' giunto a l'onorata veiga
Colla qual Roma e suoi erranti correggi,

5

1. Spirto gentil. Molto e vanamente, | rito sensitivo o vitale. Certo è però fu discusso intorno a questa parola, pensando all'angelo custode del personaggio cui la canzone è diretta, o, come vuole il Card., allo spirito della vita o sensitivo, mentre nelle parole: un signor valoroso, ecc. sarebbe adombrato lo spirito animale o intellettivo. Ma spirito qui non vuol dire se non anima, poichè è l'anima che regge il corpo; e così del resto facilmente intendono i più. Che difatti il poeta parli all' anima (io parto a te), cioè alla parte nobile e intellettiva di un individuo, si capisce; non si capisce invece che ne invochi soltanto lo spi

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che il cominciamento di questa canzone non è dei più felici. La parola signor, anche se si spieghi genericamente per essere nobile o nobile intelligenza, contiene sempre in sè, per il modo con cui è qui usata, un po' di ripetizione della parola spirito; e un' anima poi, che ablia ottenuto la onorata verga, male ce la figuriamo. - -2. Peregrinando. Per l'uomo l'esistenza terrena è, si sa, un pellegrinaggio. 1. L'onorata verga. Lo scettro d'avorio dato come insegna ai senatori. 5. Erranti. Quei cittadini che errano.

E la richiami al suo antiquo vïaggio,

Io parlo a te, però ch'altrove un raggio

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Non veggio di vertù, ch'al mondo è spenta,
Nè trovo chi di mal far si vergogni.
Che s'aspetti non so nè che s'agogni
Italia, che suoi guai non par che senta,
Vecchia oziosa e lenta.

Dormirà sempre e non fia chi la svegli?
Le man l'avess'io avvolto entro' capegli.
Non spero che già mai dal pigro sonno

Mova la testa, per chiamar ch'uom faccia,
Si gravemente è oppressa e di tal soma.
Ma non senza destino a le tue braccia,
Che scuoter forte e sollevarla ponno,

or commesso il nostro capo Roma.
Pon man in quella venerabil chioma
Securamente e ne le treccie sparte,
Si che la neghittosa esca del fango.
I', che di e notte del suo strazio piango,
Di mia speranza ho in te la maggior parte:
Che, se 'I popol di Marte

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Devesse al proprio onore alzar mai gli occhi,
Parmi pur ch'a' tuoi di la grazia tocchi.
L'antiche mura, ch'ancor teme ed ama
E trema 'l mondo, quando si rimembra e
Del tempo andato e ndietro si rivolve,

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6. E la richiami, ecc. E la riconduci | almeno potrà scuotere Roma la capisull'antica via della gloria. 7. Altrove. tale. Nostro capo deve intendersi tanto Intendi non in Roma ma in tutta Italia, capo d'Italia, quanto capo del mondo; che questa idea prepara il passaggio che nell'Africa Annibale esclama (c. VI, alla successiva, con cui da Roma il p. v. 492): Italia, Italia, et rerum caput s'allarga a considerare lo stato di tutta aspera Roma. 21. Pon mano, ecc. Italia. Egli dunque dice: io mi rivolgo Poichè s'è augurato di poter egli a te, senatore di Roma, poichè in tutta prendere pei capelli l'Italia, ora, riItalia non trovo altro signore degno cui tornando all'idea particolare di Roma, parli. 10. S'agogni. Desideri aspet-invita Bosone a fare lo stesso. -26. 11 tando; ed è usato, di solito, in senso popol di Marte. I Romani o Quiriti spregiativo.-14. Le man l'avess' io, ecc. si vantavano di discendere da Marte o Fotessi io prenderla e scuoterla pei Quirino. 27. Al proprio onore alcapelli. Entro' capegli. La i elisa zar, ecc. Innalzare lo sguardo, e quindi il si faceva sentire nel leggere. 16. Per pensiero, a cose che gli facciano onore, chiamar ch' uom faccia. Per quanto ovvero al ricordo del proprio onore. -uno la chiami coi versi o colle ora- 28. A' tuoi di. Durante il tuo reggimento. zioni o con altro, non credo che si 30. Trema. È usato transitivamente svegli da se; e si sottintende: occorre invece che tremare di; e ciò per anaproprio prenderla e scuoterla pei ca-logia coi verbi che precedono e per denpelli.-17. Oppressa. Gravata dal sonno.sità d'espressione. Non ne mancano Di tal soma. In senso proprio vuol esempi, benchè rari, nel '300 e negli scritdire da sonno così pesante, è in senso tori più tardi, ma questi imitarono forse figurato da tanti vizii e sciagure. il Petrarca; cosi il Tasso: Degli avi 18. Non senza destino. Cioè non senza tuoi ch'ama l'Europa ancora, E treuna disposizione del destino. 20. I man gl'Indi (son. 285 delle Rime eroinostro capo Roma. Se nessuno ancora che). 31. Indietro si rivolve. Ripete, può scuotere dal sonno l'Italia, egli per maggiore efficacia, l'idea giá

MOSCHETTI. Petrarca.

5

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