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l'uguaglianza. Contano, che quando gli si parò innanzi la statua del Cardinale di Richelieu nel palazzo della Sorbona, con grande impeto corresse ad abbracciarla, e tenendosela stretta al seno esclamasse: Oh! lo stupendo uomo che tu sei stato: se fossi vivo, io ti darei mezzo il mio impero per apparare da te l'arte di governare l'altra metà. Era di marmo il petto di Richelieu; ma se vivo fosse stato, avrebbe risposto il suo cuore d'un palpito di simpatia a quello di Pietro. Il ministro di Luigi XIII che aveva saputo eguagliare l'aristocrazia al popolo per far via alla monarchia di Luigi XIV, doveva essere caro assai al successore d`Iváno. Gli enciclopedisti videro quegli abbracciamenti dello Czar col Cardinale, e non ne intesero il senso. L' Accademia delle scienze si riputò onoratissima di accogliere Pietro a suo membro: morto, ne udì l' elogio che ne recitò Fontenelle con funebre compunzione; nella galleria del Louvre fecero rotolare ai piedi del Moscovita una medaglia che recava la sua effigie con questo motto: Vires acquirit eundo; quasi che Pietro avesso poca voglia di progredire, da doversi anche stimolare con le medaglie. Questo scontro di Pietro il Grande con la civiltà del secolo XVIII che metteva tanta consolazione e rispetto nell' animo degli enciclopedisti, che pure è materia seriissima di considerazioni veramente filosofiche; quanta materia da ridere avrebbe data

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a Voltaire! Ma Voltaire era anche enciclopedista, e ciambellano di Federico II.

XIV. Tornò Pietro in Russia ricco di peregrine cognizioni; molti scienziati lo seguirono; e tutti invidiavano ai Russi un principe, che per incivilire il suo popolo aveva tanto faticato. L'amministrazione, i giudizi, la milizia, la finanza, in una parola lo Stato fu tosto ordinato alla maniera degli Occidentali: le scienze, le arti incominciarono a fiorire nelle moscovite contrade. Questi erano semi che confidava lo Czare alla terra, per raccoglierne solo il frutto. E per esser solo, più dello Stato, occupossi della riforma della nazione, nel quale studio adoperò con tutta la energia selvaggia dei suoi antecessori la teorica degli Enciclopedisti, dico quella dell' eguaglianza. Qual era mai questa riforma? forse il dirozzare i costumi, ingentilirli, aiutare ed esaltare la coscienza della propria dignità, consegrare il gran principio della nazionalità con quello della religione, fecondare il principio di azione, vivificarlo con disciplinata libertà? Nulla di questo: la riforma era tutta nell' uccidere la vita di quel popolo e farne un cadavere, traslocando il principio di azione dal popolo nella mente dello Czare. Ecco l'opera dell' eguaglianza; non quella che partorisce la legge nella unità della sua applicazione; ma quella che si lascia

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dopo la morte: mors omnia æquat. A far questo, Pietro si collocò nell'esercito, il quale, come compagnia di uomini più passiva, gli offeriva quasi il nucleo della sua azione. La gerarchia militare non si forma per libera azione degl' individui: è tutta nella volontà del supremo capitano. Pietro elevò a principio questo fatto, e lo mise a fondamento della nuova economia del domestico governo. Ad affilare un intero popolo come un branco di reclute da disciplinare alla celere obbedienza di chi comanda, bisognava svellere dal suo cuore ogni cosa di proprio, patria, religione, costumi, tradizioni: uguagliar tutti con la morte dello spirito. E tutto sradicò Pietro da vero filosofo del suo secolo. Le città capitali dei grandi imperi che si reggono a monarchia, sono i centri morali della unità di un popolo: in quelle come siede in trono il principe, siede in trono anche più elevato la grande idea della nazionalità, veneranda pel decoro della storia e delle sue tradizioni, quasi divina per l' aureola di che l'incorona la religione. Nella capitale è il cuore e la mente di un popolo: rapirgli quella è un percuoterlo di un misterioso dolore, è un fargli perdere la logica della sua esistenza. Ed in Mosca capitale della Russia Pietro il Grande percosse di quel dolore il suo popolo, gl' intorbidò l'intelletto della sua nazionalità. Questa città che col suo Kremlin, vero Campidoglio de' Russi, si

levava a santo testimonio di religione e di nazionalità, venne in un dì abbandonata da Pietro, che non volle fosse più la metropoli del suo impero. Egli andò sul golfo di Finlandia, paese non russo e di fresco conquistato, suolo maremmano che nella sua nudità di ogni bello di natura simboleggiava il morale silenzio di ogni tradizione, e vi fondò Pietroburgo novella capitale, fattura delle sue mani. Il popolo allora morì alla scienza della sua nazionalità, e sostituì a questa un atto di fede nella onnipotenza dello Czar che gli diceva: non più Mosca, ma Pietroburgo fosse la sua capitale. Seguivano le matte coazioni nei costumi, nelle leggi; in una parola, il Russo doveva per forza rimutarsi in Francese, in Alemanno, in Inglese, come meglio piacesse allo Czar.

Pietro sapeva quale e quanto principio di azione fosse nel cuore di un popolo la Religione: lasciarla in mano dei preti non voleva, perchè i Russi non si sviassero dalla sua adorazione per adorare Iddio. In questo negozio usò degli stessi mezzi, onde usarono i Filosofi in Occidente; il ridicolo e la forza, Voltaire e le leggi della Convenzione francese. Stando ancora in Parigi, i Dottori della Sorbona con una beata ingenuità si accostarono a Pietro, significandogli il loro desiderio di vedere riunita la Chiesa Russa alla Romana. Il Moscovita non rise di quel desiderio, per non

parere si beffasse dei suoi ospiti. Rispose, che ne scrivessero pure in Russia ai suoi preti; perchè egli darebbe loro piena licenza a trattare quell' affare. I Dottori scrissero, i preti russi risposero; ma allorchè Pietro tornò a casa, dette al suo popolo una splendida testimonianza di quel che pensasse intorno al Papa ed alla Chiesa Romana. Travestì da Papa certo Zolof, uomo scemo di mente, ed in mezzo ad un branco di ubbriachi lo fe sedere in trono: lo fece aringare da quattro balbi: poi creò Cardinali certi mascalzoni, e messosi alla loro testa, condusse egli stesso per la città la processione di tutti questi avvinazzati. Lo Czar, letificato dal vino, beffavasi di quel Papa e di que' Cardinali, rideva il popolo. Ma piansero i preti, allor che si videro beffati anche essi dal medesimo, ed abolita la dignità di Patriarca. Pietro soleva chiamare nelle sue lettere i preti Barbe di becco: i monaci odiava, perchè la disciplina che li univa, la regola che li assoggettava ad un capo, spiacevagli. Egli voleva l'unità. Incorporò tutti nella massa dello Stato, o meglio nell'esercito; perchè l'esercito per lui era lo Stato. Come l'ordine civile, così l'ecclesiastico mise tutto alla militare: i Vescovi ebbero gradi ed onori da Generali, e così andando in giù nella gerarchia chericale, chi Colonnello, chi Capitano era. Lo Czar investì sè stesso dell'autorità dell'abolito Patriarca: e in mano sua

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