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pone che si debba accettare non sol éciale riconoscimento d'autorità a Pietro, ma che lo si riconosca anche ai suoi successori. E giustamente. Un'oligarchia al sommo fastigio della Chiesa avrebbe avuto un significato troppo banalmente burocratico e non avrebbe mancato di lasciar dubbi sulla sua omogeneità ed umanità. Un capo unico sarebbe invece riuscito davvero quello che Soloviev chiamò «<l'icone miracolosa del Cristianesimo universale », cioè il simbolo più adeguato dell'unità, dell'immutabilità, del progresso della Chiesa, oltre che della sua indipendenza di fronte ai poteri civili e della sua fecondità e capacità di recupero.

Ma dal pescatore di Cafarnao all'attuale Pontefice Massimo quale distanza! Aprendo un Annuario Pontificio, le pagine dedicate al semplice elenco dei membri della Corte Pontificia lasciano veramente sbalorditi. Ecco, ad esempio, quello della Famiglia della Santità di Nostro Signore (per tacere dell'altro della cosiddetta Cappella Pontificia): « Cardinali palatini - Nobile anticamera segreta - Prelati palatini Gran Maestro del S. Ospizio Camerieri segreti di cappa e spada partecipanti Prelati doCollegio dei

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mestici Guardie nobili pontificie Maestri delle Cerimonie pontificie Camerieri segreti soprannumerari - Camerieri segreti di cappa e spada di numero e soprannumerari - Camerieri d'onore in abito paonazzo Camerieri d'onore extra Urbem Camerieri d'onore di cappa e spada di numero e soprannumero Stato maggiore della Guardia Svizzera pontificia, della Guardia Palatina d'onore e della Gendarmeria pontificia segreti e cappellani segreti d'onore

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Cappellani
Cappellani

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Decisamente è un po' troppo. Se il cristianesimo ha tratto origine dall'Oriente, non è però nato in una corte e sarebbe ben triste che l'ultimo papa morisse, sia pure alla fine del mondo, in un fasto del genere. D'accordo che i tempi hanno portato a dei non desiderabili compromessi, ma la scusa per perpetuare un simile folklore non ha più giustificazioni ormai. E, se si insiste, non v'è dubbio che tutto ciò è in armonia con un autentico culto le cui compiacenze servili non si fermano certo ai flabelli e al bacio del piede. Nessuno, naturalmente, pretende che il Papa vesta in tight e in cilindro. Il rappresentante supremo d'un culto religioso, che aduna quasi 400 milioni d'uomini, ha tutto il diritto di vivere avvolto in un nimbo particolare di devozione e di amore. Ma ogni eccesso dovrebbe essere scrupolosamente eliminato e sopratutto nessuna forma di cortigianeria dovrebbe mai essere sopportata. Spessissimo invece gli scritti e i discorsi dei più qualificati cattolici (non parliamo dei dignitari ecclesiastici e del clero in genere) dal tono strisciante dei cronisti de L'Osservatore Romano all'enfasi dei biografi e dei panegiristi non ne sono che repugnanti esemplari. (E che dire di certe grossolane montature, come quella del genio oratorio dell'attuale pontefice, che tutto sarà ma non certo un felice oratore?) La dignità di Vicario di Cristo e la persona che ne è temporaneamente rivestita dovrebbero esser tenute nettamente distinte e quest'ultima passare in ogni caso in netto sott'ordine di fronte alla prima.

Senza dire che l'etichetta e la prammatica investono talora persino atti del magistero supremo infirmandone l'efficacia e la risonanza. Si pensi alle vietissime forme con cui sono tutt'oggi redatte le encicliche papali. A parte le proporzioni, talvolta giustificate, la loro sterile ambizione di « summae » ricapitolatrici ab ovo della questione in esame, la loro enfasi retorica, e insieme la loro freddezza di esposizione, i geroglifici tomistici che complicano le involuzioni stilistiche, la loro astrattezza, ecc. impongono il risultato fatale della loro inaccessibilità. Solo qualche documento, in una marea di scritti del genere, si salva di quando in quando, o per la sua eccezionale importanza o per ragioni contingenti; ma di nessuno mai si può parlare di popolarità (che, semmai, non va al di là del titolo).

Ma il male scava anche più in profondità. La presenza simbolica del Cristo nell'umanità, quale è realizzata dal Pontefice da Roma, si è trasformata a poco a poco, ma ormai irrimediabilmente (e il caso del mite Pio X praticamente esautorato dal suo autoritario segretario di Stato lo prova), da presenza ministeriale e pastorale in autorità eminentemente egemonica e totalitaria. E il suo infallibilismo non è più ormai concluso alle pure questioni di fede e di morale, ma si esercita di fatto altrettanto prepotentemente e indiscriminatamente in ogni campo, politico, culturale, pedagogico, ecc. L'unica libertà superstite ai fedeli è quella di acconsentire e obbedire.

Il massimo dell'arbitrio si esercita, evidentemente, nel settore religioso. A dire il vero, nel '70 la contrastatissima definizione dell'infallibilità pon

tificia non preoccupò gran che la maggior parte dei teologi, che vi aveva acconsentito, per il fatto che ormai verità da tramutare in dogmi non ce n'era molte all'orizzonte e nessuno dubitava che si sarebbe proceduto in ogni caso per via conciliare. Invece, il dogma dell'Assunta passò senza la convocazione di nessun Concilio (nè v'è alcun dubbio che, rebus sic stantibus, nessun eventuale concilio troverà più atmosfere tanto surriscaldate e bellicose perchè libere come quella del Concilio Vaticano, dato il progressivo addomesticamento delle menti e delle coscienze!). Peggio, sembra che ormai lo stesso ricorso alle definizioni sia un lusso e che la libertà di pensiero nelle varie discipline teologiche debba fermarsi molto prima. Secondo Pio XII, nella recentissima Humani generis, infatti: «...certuni vanno dicendo che i Pontefici non intendono dare un giudizio sulle questioni che sono oggetto di disputa tra i teologi; e che è quindi necessario ritornare alle fonti primitive e spiegare con gli scritti degli antichi le costituzioni e i decreti del magistero.

« Queste affermazioni

te il Papa

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vengono fatte forse con eleganza di stile; però esse non mancano di falsità. Infatti è vero che generalmente i pontefici lasciano liberi i teologi in quelle questioni che, in vario senso, sono soggette a discussioni fra i dottori di miglior fama; però la storia insegna che parecchie questioni che prima erano oggetto di libera disputa, in seguito non potevano più essere discusse.

« Nè si deve ritenere che gli insegnamenti delle Encicliche non richiedano per sè il nostro assenso

col pretesto che i Pontefici non vi esercitano il potere del loro Magistero Supremo.

«< Infatti questi insegnamenti sono del Magistero Ordinario di cui valgono pure le parole: « Chi ascolta voi ascolta me »; e per lo più quanto viene proposto e inculcato nelle Encicliche è già, per altre ragioni, patrimonio della dottrina cattolica. Che se, poi, i Sommi Pontefici nei loro atti emanano di proposito una sentenza in materia finora controversa, è evidente per tutti che tale questione, secondo l'intenzione e la volontà degli stessi Pontefici, non può più costituire oggetto di libera discussione tra i teologi ».

Sembrerebbe impensabile, ma la stessa intransigenza ricorre in materia assai dubbiamente disciplinare, quale la politica. Gli scacchi che, ad esempio, hanno punteggiato drammaticamente le direttive impartite ai cattolici italiani da Pio IX sino a Pio X sembrano non aver insegnato nulla. Non solo non è lecito sostenere in sede storica (e provi a farlo un docente di storia ecclesiastica nei seminari!) la sconsideratezza delle misure pontificie che tolsero ai cattolici italiani qualsiasi influenza politica sociale e morale nel loro paese per quasi un cinquantennio ma bisogna sostenere il contrario, inculcando che una cieca obbedienza alle direttive della S. Sede è sempre opportuna e provvi denziale. In parole povere, anche in politica «< il Papa ha sempre ragione ». Ma questo, della Chiesa e della politica, è un argomento che dovremo sviluppare più avanti.

Una critica adeguata alla posizione di integrale assolutismo quale è riservata al Pontefice nella Chie

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