Però farebbe da ritrarfi in porto, Mentre al governo ancor crede la vela. L'aura foave a cui governo, e vela Commifi entrando all' amorofa vita, E fperando venire a miglior porto; Poi mi conduffe in più di mille fcogli: E le cagion del mio dogliofo fine
Non pur d'intorno avea, ma dentro al legno. Chiufo gran tempo in quefto cieco legno, Errai fenza levar occhio alla vela,
Ch' anzi 'l mio di mi trafportava al fine: Poi piacque a lui che mi produffe in vita, Chiamarmi tanto indietro dalli fcogli, Ch' almen da lunge m' appariffe il porto. Come lume di notte in alcun porto Vide mai d'alto mar nave, nè legno, Se non gliel tolfe o tempeftate, o fcogli; Così di fu dalla gonfiata vela
Vid' io le 'nfegne di quell' altra vita: Ed allor fofpirai verfo'l mio fine. Non perch' io fia fecuro ancor del fine; Che volendo col giorno effer a porto, E' gran viaggio in così poca vita: Poi temo, che mi veggio in fragil legno; E più ch'i' non vorrei, piena la vela Del vento che mi pinfe in quefti fcogli. S'io efca vivo de' dubbiofi fcogli,
Ed arrive il mio efilio ad un bel fine; Ch' i' farei vago di voltar la vela, E l'ancore gittar in qualche porto; Se non ch'i' ardo, come accefo legno; Si m' è duro a laffar l' ufata vita.
Signor della mia fine, e della vita,
Prima ch'i' fiacchi il legno tra li fcogli, Drizza a buon porto l'affannata vela,
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Quefto Sonetto è prefo dal Salmo LIV. Benchè là Davidde priega che gli fieno preftate ali di Colomba per fuggire da' Traditori nel Deferto; e qui il Poeta priega per aver ali da fuggire l' Avverfario al Cielo dietro a Crifto. E' dunque della materia della precedente Sestina.
Lo fon si ftanco fotto 'l fafcio antico
Delle mie colpe, e dell' ufanza ria; Ch'i' temo forte di mancar tra via, E di cader in man del mio nemico.
Ben venne a dilivrarmi un grande amico Per fomma, ed ineffabil cortefia: Poi volò fuor della veduta mia, Sì, ch' a mirarlo indarno m' affatico:
Ma la fua voce ancor quaggiù rimbomba: O voi che travagliate, ecco il cammino: Venite a me, fe'l paffo altri non serra, Qual grazia, qual' amore, o qual deftino Mi darà penne in guifa di colomba; Ch'i' mi ripofi, e levimi da terra?
SONETTO LXI.
E' contento di feguire la 'mprefa amorofa, dove voglia lasciare la crudeltà: altrimenti le minaccia d'abbandonarla.
o non fu' d' amar voi laffato unquanco, Madonna, nè farò, mentre ch' io viva: Ma d' odiar me medefmo giunto a riva, E del continuo lagrimar-fo ftanco. E voglio anzi un fepolcro bello, e bianco; Che 'l voftro nome a mio danno fi fcriva In alcun marmo, ove di fpirto priva Sia la mia carne, che può ftar feco anco. Però s'un cor pien d'amorofa fede
Può contentarvi fenza farne strazio; Piacciavi omai di quefto aver mercede: Se 'n altro modo cerca d'effer fazio
Voftro fdegno, erra; e non fia quel che crede: Di che Amor', e me fteffo affai ringrazio.
SONETTO LXII.
Parla della materia dell' ultimo Verfo del Sonetto precedente. Ancorachè non fia per liberarfi in tutto da Amore, massimamente trovandofi in presenzia di Laura, primachè non fia vecchio, nondimeno non è più per fentirne tormento. Or dipinge va gamente un amore leggiero, ed un grave in molte guife.
Se bianche non fon prima ambe le tempie,
Ch' a poco a poco par, che 'l tempo mischi; Securo non farò, bench' io m' arrischi Talor', ov' Amor l' arco tira, ed empie.
Non temo già, che più mi ftrazj, o fcempie, Nè mi ritenga, perch' ancor m' invifchi; Nè m'apra il cor, perchè di fuor l' incifchi, Con fue faette velenofe, ed empie. Lagrime omai da gli occhi ufcir non ponno; Ma di gir in fin là fanno il viaggio; Sì, ch' appena fia mai chi 'l paffo chiuda. Ben mi può riscaldar il fiero raggio,
Non si, ch'i' arda; e può turbarmi il fonno, Ma romper nò, l' immagine afpra, e cruda.
SONETTO LXIII.
Ragionamento tra il Petrarca, e gli occhi fuoi. A cui fi debba attribuire la colpa, e la cagione dell' amore del Petrarca al cuore, o agli occhi. Il Petrarca difende il cuore.
Occhi, piangete; accompagnate il core,
Che di voftro fallir morte foftene. Cosi fempre facciamo; e ne convene Lamentar più l' altrui, che 'l nostro errore. Già prima ebbe ger voi l'entrata Amore: Laonde ancor, come in fuo albergo, vene. Noi gli aprimmo la via per quella fpene Che moffe dentro da colui che more. Non fon, com'a voi par, le ragion pari: Che pur voi fofte nella prima vifta
Del voftro, e del fuo mal cotanto avari. Or quefto è quel che più ch' altro n'attrifta; Ch' e perfetti giudicj fon sì rari,
E d'altrui colpa altrui biafmo s' acquista.
SONETTO LXIV.
Nel luogo, e nell' ora, che s'innamorò già avvenne che vide Laura, e di quefto accidente ne teffe quefto Sonetto. Narra prima come è obbligato a ciascuno particolarmente molto. Poscia dice effere ftato affalito da tutti infieme: onde per foperchio di
ciò cadrebbe morto, fe la fperanza nol softenesse in vita.
To amai fempre, ed amo forte ancora,
E fon per amar più di giorno in giorno Quel dolce loco ove piangendo torno Speffe fiate, quando Amor m' accora: E fon fermo d' amare il tempo, e l' ora Ch'ogni vil cura mi levar d'intorno; E più colei lo cui bel vifo adorno Di ben far co' fuoi efempj m'innamora Ma chi pensò veder mai tutti infeme
Per affalirmi'l cor' or quindi, or quinci, Quefti dolci nemici ch'i' tant' amo? Amor, con quanto sforzo oggi mi vinci! E fe non ch' al defio crefce la fpeme; I' cadrei morto ove più viver bramo.
SONETTO LXV.
Addotto il Petrarca in difperazione, defidera effer morto mentre fu felice. E pruova che non verrà mai il tempo felice da potere morire, dalla natura del tempo che fe ne porta via l'op portunită prefentate, le quali non ritornano: e fe pur morrà, morrà infelice, morendo nelle miferie.
To avrò fempre in odio la feneftra
Onde Amor m' avventò già mille ftrali, Perch' alquanti di lor non fur mortali; Ch'è bel morir mentre la vita è deftra.
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