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Volgon per forza il cor piagato altrove:
Ond' io divento. fmorto;

E'l fangue fi nafconde i'non fo dove;
Nè rimango qual' era; e fommi accorto,
Che quefto è'l colpo di che Amor m'ha morto,
Canzone, 'fento già flancar la penna

Del lungo, e dolce ragionar con lei;
Ma non di parlar meco i penfier miei.

SONETTO LIV

Fa due cofe in quefto Sonetto. Si maraviglia della moltitudine de' fuoi penfieri, de' fotpiri, delle voci, de' paffi, e delle fcritture fatte a cagione di Laura; e fi fcufa, fe trafandasse in quefte cofe, ed offendeffe Laura.

Lo fon già ftanco di penfar, ficcome

I miei penfier' in voi ftanchi non fono;
E come vita ancor non abbandono,
Per fuggir de' fofpir si gravi fome;
E comè a dir del vifo, e delle chiome,

E de' begli occhi, ond' io fempre ragiono,
Non è mancata omai la lingua, e 'l fuono
Dì, e notte chiamando il vostro nome;
E ch' e piè miei non fon fiaccati, e laffi
A feguir l'orme voftre in ogni parte,
Perdendo inutilmente tanti paffi;

Ed onde vien l'inchioftro, onde le carte
Ch'i'vo empiendo di voi: fe'n ciò fallaffi;
Colpa d'amor, non già difetto d'arte.

S

SONETTO LV.

Conforta fe medefimo a fcrivere delle lodi degli occhi, riprovando un timor che lo impediva, cioè che la fua lingua non n'era degna: concioffiacofachè non la lingua, ma il penfier farà biafimato; e fi rifolve in lode loro.

begli occhi ond' i' fui percofso in guifa
Ch'e medefimi porian faldar la piaga;
E non già vertù d'erbe, o d'arte maga,
O di pietra dal mar noftro divifa;
M'hanno la via si d'altro amor precisa,
Ch' un fol dolce penfier l' anima appaga:
E fe la lingua di feguirlo è vaga;
La fcorta può, non ella, effer derisa.
Quefti fon que' begli occhi che l' imprefe
Del mio Signor vittoriofe fanno

In ogni parte, e più fovra 'l mio fianco:
Quefti fon que' begli occhi che mi ftanno.
Sempre nel cor con le faville accefe;
Perch' io di lor parlando non mi ftanco,

****

********************

SONETTO LVÌ.

Se in perfona fua fece quefto Sonetto il Petrarca, è da dire che alcuna volta aveva diliberato di lafciare d' amare, pofcia Amor l'aveva indotto a ritornare; ora di nuovo delibera di lafciarlo. E fcrive ad un fuo amico lo ftato peffimo, nel quale fi ritruova in guifa che, fe lo vedeffe, giudicherebbe, che tofto avefle a morire.

Amor
mor con fue promeffe lufingando

Mi riconduffe alla prigione antica;
E diè le chiavi a quella mia nemica
Ch' ancor me di me fteffo tene in bando.

Non me n'avvidi, laffo, fe non quando
Fu' in lor forza: ed or con gran fatica
(Chi 'l crederà, perchè giurando il dica?)
In libertà ritorno fofpirando.

E come vero prigionero afflitto,

Delle catene mie gran parte porto:

E'l cor negli occhi, e nella fronte ho fcritto.

Quando farai del mio colore accorto,

Dirai: S'i' guardo, e giudico ben dritto;
Questi avea poco andare ad effer morto.

SONETTO LVII.

Lode di Simone Sanefe dipintore. Tutti i dipintori antichi non vedrebbono la millefima parte delle bellezze, le quali tutte ha dipinte Simone; adunque Simone la fece non in quefto Mondo, ma in Cielo, dove più perfettamente fi fanno l'opere.

Pe

er mirar Policleto a prova fifo

Con gli altri ch' ebber fama di quell' arte,
Mill' anni, non vedrian la minor parte
Della beltà che m' ave il cor conquifo,

Ma certo il mio Simon fu in paradifo,
Onde quefta gentil Donna fi parte:
Ivi la vide, e la ritraffe in carte,
Per far fede quaggiù del fuo bel vifo.
L'opra fu ben di quelle che nel cielo

ponno immaginar, non qui fra noi,
Ove le membra fanno all' alma velo,

Cortefia fè nè la potea far poi

Che fu difcefo a provar caldo, e gielo;
E del mortal fentiron gli occhi fuoi.

SONETTO LVIII.

Si duole che Simone non abbia data voce, ed intelletto alla figura; e dice d'invidiar Pigmalione, acciocchè non pareffe di dolerfi di cosa impoffibile,

Quando

giunse a Simon l'alto concetto

Ch' a mio nome gli pofe in man lo ftile,
S'aveffe dato all' opera gentile

Con la figura voce, ed intelletto;

Di fofpir molti mi fgombrava il petto:

Che ciò ch' altri han più caro, a me fan vile:
Però che 'n vista ella fi moftra umìle,
Promettendomi pace nell' afpetto.

Ma poi ch'i' vengo a ragionar con lei;
Benignamente affai par che m' afcolte,
Se risponder faveffe a' detti miei.
Pigmalion, quanto lodar ti dei

Dell' immagine tua, fe mille volte
N' avefti quel ch'i' fol' una vorrei!

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SONETTO LIX.

Argomenta che fia vicino a morte, nè poffa più campare per ajuto, che gli foffe porto: così è mal trattato dal fuo defio, da Amore, da fuoi occhi, da Laura.

S'al

'al principio rifponde il fine, e 'l mezzo
Del quartodecim anno ch' io fofpiro,

Più non mi può fcampar l'aura, nè 'l rezzo;
Si crefcer fento 'I mio ardente defiro.

Amor, con cui penfier mai non han mezzo,
Sotto 'l cui giogo giammai non refpiro;
Tal mi governa, ch' i' non fon già mezzo,
Per gli occhi, ch' al mio mal sì fpeffo giro.
Così mancando vo di giorno in giorno,

Si chiufamente, ch'i' fol me n' accorgo,
E quella che guardando il cor mi firugge.
Appena infin' a qui l'anima fcorgo;

Nè fo quanto fia meco il fuo foggiorno:
Che la morte s' appreffa, e 'l viver fugge.

SESTINA IV.

Moftra a coloro, che fi fono abbandonati ad Amore, che fono in pericolo di perdere l'Anima, e che fi debbano ritrarre,

duce il fuo efempio.

Chi

*

hi è fermato di menar fua vita

**

Su per l'onde fallaci, e per li fcogli,
Scevro da morte con un picciol legno;
Non può molto lontan' effer dal fine:

Rezzo viene da Aurezzo, e fi prende per Ombra. ** Separato.

Ad

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