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O delle cofe belle?

Meco fi fta chi dì, e notte m' affanna,
Poi che del fuo piacer mi fè gir grave

La dolce vifta, e'l bel guardo foave. * Principio della Canzone di M. Cino da Pistoja. Tutte le cofè di che 'l mondo è adorno,

Ufcir buone di man del Maftro eterno:
Ma me, che così addentro non difcerno,
Abbaglia il bel che mi fi moftra intorno:
E s' al vero fplendor giammai ritorno;
L'occhio non può ftar fermo;

Così l'ha fatto infermo

Pur la fua propria colpa, e non quel giorno
Ch'i' volfi inver l' angelica beltade

Nel dolce tempo della prima etade. *

* Questo è il principio della fua Canzone. E così moftra che nella lingua non riputaffe altri Poeti, che questi.

**********

CANZONE VIII.

***

Delibera il Poeta di fcrivere degli occhi di Laura; perciocchè n' era ritratto dalla neceffità di fcrivere, per palefar la doglia fua a Laura, ed averne foccorfo. E dice che non s' indugia più a fcrivere degli occhi, perciocchè per la brevità della vita, gli potrebbe mancare il tempo, e maffimamente ritraendofi da quefta imprefa lo 'ngegno: e che non fa bifogno di palefar fua doglia. Laonde egli volge lo ftile dalle doglie agli occhi, il quale, contuttochè debole, diviene gagliardo per lo piacere, che prende in iscrivere di lei, e per lo foggetto che tien certa qualità di valore.

Perchè la vita è breve,

E l'ingegno paventa all' alta imprefa;
Nè di lui, nè di lei molto mi fido;
Ma fpero che fia intefa

Là dov' io bramo, e là dov' effer deve,

La

La doglia mia, la qual tacendo i' grido;
Occhi leggiadri, dov' Amor fa nido,
A voi rivolgo il mio debile ftile

Pigro da se; ma 'l gran piacer lo fprona:
E chi di voi ragiona,

Tien dal fuggetto un'abito gentile;
Che con l'ale amorofe

Levando, il parte d' ogni penfier vile:
Con quefte alzato vengo a dire or cofe
C'ho portate nel cor gran tempo ascose.
Non perch' io non m' avveggia
Quanto mia laude è ingiuriofa a voi:
Ma contraftar non poffo al gran defio;
Lo quale è in me dapoi

Ch'i' vidi quel che penfier non pareggia;
Non che l'agguagli altrui parlar', o mio.
Principio del mio dolce stato rio,

Altri che voi, fo ben, che non m' intende,
Quando a gli ardenti rai neve divegno;
Voftro gentile fdegno

Forfe ch allor mia indegnitate offende.
O, fe quefta temenza

Non tempraffe l' arfura che m' incende;
Beato venir men! che 'n lor presenza
M'è più caro il morir, che 'l viver fenza.
Dunque ch'i' non mi sfaccia,

Si frale oggetto a sì poffente foco;
Non è proprio valor che me ne scampi:
Ma la paura un poco;

Che 'l fangue vago per le vene agghiaccia;
Rifalda 'l cor perchè più tempo avvampi.

O poggi, o valli, o fiumi, o felve, o campi,

O teftimon della mia grave vita,
Quante volte m'udifte chiamar Morte?
Ahi dolorofa forte!

Lo ftar mi flrugge, e 'l fuggir non m' aita.
Ma; fe maggior paura

Non m' affrenaffe; via corta, e fpedita
Trarrebbe a fin queft' afpra pena, e dura;
E la colpa è di tal, che non ha cura.
Dolor, perchè mi meni

Fuor di cammin' a dir quel ch'i' non voglio?
Softien ch' io vada ove 'I piacer mi fpigne,
Già di voi, non mi doglio,

Occhi fopra' mortal corfo fereni,
Nè di lui ch' a tal nodo mi diftrigne,
Vedete ben, quanti color dipigne
Amor fovente in mezzo del mio volto;
E potrete penfar, qual dentro fammi,
La've dì, e notte stammi

Addoffo col poder c'ha in voi raccolto,
Luci beate, e liete;

Se non che'l veder voi fteffe v'è tolto:
Ma quante volte a me vi rivolgete,
Conofcete in altrui quel che voi fiete.
S'a voi foffe sì nota

La divina incredibile bellezza

Di ch' io ragiono, come a chi la mira;
Mifurata allegrezza

Non avria 'l cor: però forfe è remota
Dal vigor natural che v' apre, e gira,
Felice l'alma che per voi fofpira,
Lumi del ciel; per li quali io ringrazio
La vita, che per altro non m' è a grado.

Oimè, perchè sì rado

Mi date quel dond' io mai non son fazio?
Perchè non più fovente

Mirate, qual' Amor di me fa ftrazio?
E perchè mi spogliate immantenente
Del ben, ch' ad ora ad or l'anima fente?

Dico, ch' ad ora ad ora

(Voftra mercede) i̇' sento in mezzo l' alma Una dolcezza inufitata, e nova;

La qual' ogni altra falma

Di nojofi penfier difgombra allora
Sì, che di mille un fol vi fi ritrova:
Quel tanto a me, non più, del viver giova:
E fe quefto mio ben duraffe alquanto,
Nullo ftato agguagliarfe al mio potrebbe:
Ma forfe altrui farebbe

Invido, e me fuperbo l'onor tanto:
Però, laffo, convienfi

Che l' eftremo del rifo affaglia il pianto;
E 'nterrompendo quelli fpirti accenfi,
A me ritorni, e di me fteffo pensi.

L'amorofo penfiero

Ch' alberga dentro, in voi mi fi difcopre
Tal, che mi trae del cor' ogni altra gioja:
Onde parole, ed opre

Efcon di me sì fatte allor, ch' i' fpero
Farmi immortal, perchè la carne moja.
Fugge al voftro apparire angofcia, e noja;
E nel vostro partir tornano infeme:
Ma perchè la memoria innamorata
Chiude lor poi l' entrata;

Di là non vanno dalle parti eftreme:
Onde s' alcun bel frutto

Nafce di me; da voi vien prima il feme:
Io per me fon quafi un terreno asciutto
Colto da voi, e'l pregio è voftro in tutto.
Canzon, tu non m'acqueti, anzi m' infiammi
A dir di quel ch' a me fteffo m' invola:
Però fia certa di non effer fola.

CANZONE IX.

Due cofe principalmente intende di dimoftrare in questa Canzone; l' una che egli s' innalzava, veggendo gli occhi di Laura, al Cielo; l'altra, che fi mette a ftudiare. Ma perchè non s' innalzerebbe al Cielo, fe non fofler di divina bellezza, primieramente gli commenda di bellezza; nè fi metterebbe a ftudiare, fe non foffe il defiderio di vedergli e per la utilità, e per la gioja, che ne prende, veggendogli: fecondamente gli commenda d'utilità, che porgono altrui.

Gentil mia Donna, i' veggio

Nel mover de' voftr' occhi un dolce lume,
Che mi mostra la via ch' al ciel conduce;

E per lungo coftume

Dentro là dove fol con Amor feggio,
Quafi vifibilmente il cor traluce.

Quest' è la vifta ch' a ben far m' induce,
E che mi fcorge al gloriofo fine:
Quefta fola dal Vulgo m' allontana:
Ne giammai lingua umana

Contar poria quel che le due divine
Luci fentir mi fanno:

E quando 'l verno fparge le pruine,

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