SONETTO XLII.
Il Petrarca dice che, fe Laura fdegnara un poco gli s'avvicinava, egli diveniva un Diamante, un Marmo bianco, o un Diafpro per la paura: efi duole che ciò non sia avvenuto, perchè farebbe fuori d'affanno.
Poco era ad appreffarfi agli occhi miei
La luce che da lunge gli abbarbaglia: Che come vide lei cangiar Teffaglia, Così cangiato ogni mia forma avrei:
E s' io non poffo trasformarmi in lei Più ch' i mi fia, non ch'a mercè mi vaglia; Di qual pietra più rigida s' intaglia, Penfofo nella vifta oggi farei;
O di diamante, o d'un bel marmo bianco Per la paura forfe, o d'un diafpro Pregiato poi dal vulgo avaro, e fciocco: E farei fuor del grave giogo, ed afpro; Per cu' i' ho invidia di quel vecchio ftanco* Che fa con le fue fpalle ombra a Marrocco.
BALLATA III.
Non al fuo amante più Diana piacque, Quando per tal ventura tutta ignuda La vide in mezzo delle gelid' acque; Ch' a me la paftorella alpeftra, e cruda Pofta a bagnar un leggiadretto velo,
Ch'a Laura il vago, e biondo capel chiuda; Tal, che mi fece or quand' egli arde il cielo, Tutto tremar d' un' amorofo gielo
Scrive a Niccolò di Lorenzo, il quale era ftato creato a Tribuno del popolo Romano, il quale incitò il popolo alla libertà, ed occupò il Campidoglio, Per la qual cofa da tutte le parti d'Ita lia a lui venivano Ambafcerie per far Leghe, e Pofture. Il Petrarca adunque il conforta a far morire alcuni Caporali di Roma:
Spirto gentil, che quelle membra reggi Dentro alle qua' peregrinando alberga Un fignor valorofo, accorto, e faggio; Poi che fe' giunto all' onorata verga, Con la qual Roma, e fuoi erranti correggi, E la richiami al fuo antico viaggio; Io parlo a te, però ch'altrove un raggio Non veggio di vertù, ch' al mondo è spenta; Nè trovo chi di mal far fi vergogni. Che s"afpetti non fo, nè che s' agogni
Italia; che fuoi guai non par che fenta; Vecchia, oziofa, e lenta.
Dormirà fempre, e non fia chi la svegli? Le man l'avess' io avvolte entro e capegli, Non fpero che giammai dal pigro fonno
Mova la tefta per chiamar ch'uom faccia; Si gravemente è oppreffa, e di tal foma. Ma non fenza deftino alle tue braccia, Che fcuoter forte, e follevarla ponno, E'or commeffo il noftro capo Roma. Pon man' in quella venerabil chioma Securamente, e nelle treccie fparte Sì, che la neghittofa efca del fango. I', che dì e notte del fuo ftrazio piango; Di mia fperanza ho in te la maggior parte: Che fe'l popol di Marte
Deveffe al proprio onor' alzar mai gli occhi; Parmi pur ch' a' tuoi dì la grazia tocchi, L'antiche mura ch' ancor teme ed ama, E trema 'l mondo, quando fi rimembra Del tempo andato, e 'ndietro fi rivolve; E i fafli dove fur chiufe le membra Di tai che non faranno senza fama Se l'univerfo pria non fi diffolve; E tntto quel ch' una ruina involve, Per te fpera faldar ogni fuo vizio. O grandi Scipioni, o fedel Bruto, Quanto v' aggrada, fe gli è ancor venuto Romor laggiù del ben locato uffizio! Come cre', che Fabbrizio
Si faccia lieto, udendo la novella! E' dice, Roma mia fara ancor bella.
E fe cofa di quà nel ciel fi cura; L'anime che lafsù fon cittadine, Ed hanno i corpi abbandonati in terra; Del lungo odio civil ti pregan fine, Per cui la gente ben non s'afficura; Onde 'l cammin' a'lor tetti fi ferra; Che fur già sì devoti, ed ora in guerra Quafi fpelunca di ladron fon fatti, Tal, ch' a' buon folamente ufcio fi chiude; E tra gli altari, e tra le ftatue ignude Ogn' imprefa crudel par che fi tratti. Deh quanto diversi atti!
Nè fenza fquille s' incomincia affalto, Che per Dio ringraziar fur pofte in alto. Le donne lagrimofe, e'l vulgo inerme
Della tenera etate, e i vecchi ftanchi; C' hanno sè in odio, e la foverchia vita; E i neri fraticelli, ei bigi, e i bianchi Con l'altre fchiere travagliate, e 'nferme Gridan': O fignor noftro, aita, aita. E la povera gente sbigottita
Ti fcopre le fue piaghe a mille a mille; Ch' Annibale, non ch' altri, farian pio: E fe ben guardi alla magion di Dio Ch' arde oggi tutta; affai poche faville Spegnendo, fien tranquille
Le voglie che fi moftran si 'nfiammate: Onde fien l'opre tue nel ciel laudate. Orfi, lupi, leoni, aquile, e ferpi Ad una gran marmorea Colonna Fanno noja fovente, ed a sè danno: Di coftor piagne quella gentil donna
Che t'ha chiamato, acciò che di lei fterpi Le male piante, che fiorir non fanno, Paffato è già più che 'l millefim' anno Che 'n lei mancar quell' anime leggiadre Che locata l'avean là dov' ell' era. Ahi nova gente oltra mifura altera, Irreverente a tanta, ed a tal madre! Tu marito, tu padre;
Ogni foccorfo di tua man s' attende: Che 'l maggior padre ad altr' opera intende. Rade volte adivien, ch' all' alte imprese Fortuna ingiuriofa non contrasti; Ch' a gli animofi fatti mal s' accorda. Ora fgombrando 'l paffo onde tu intrasti, Fammifi perdonar molt' altre offefe: Ch' almen qui da sè fteffa fi difcorda: Però, che quanto 'l mondo fi ricorda, Ad uom mortal non fu aperta la via Per farfi, come a te, di fama eterno: Che puoi drizzar, s'i' non falfo discerno, In ftato la più nobil monarchia. Quanta gloria ti fia
Dir: Gli altri l' aitar giovane, e forte; Questi in vecchiezza la fcampò da morte! Sopra 'l monte Tarpeo, Canzon, vedrai Un cavalier, ch' Italia tutta onora; Penfofo più d'altrui, che di sè fteffo. Digli: Un che non ti vide ancor da preffo, Se non come per fama uom s'innamora; Dice, che Roma ogni ora
Con gli occhi di dolor bagnati, e molli Ti chier mercè da tutti fette i colli.
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