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Eolo a Nettuno, ed a Giunon turbato
Fa fentir, ed a noi, come fi parte
Il bel vifo dagli Angeli aspettato.

SONETTO XXXIV.

Ma poi che 'l dolce rifo umile, e piano

Più non afconde fue bellezze nove;
Le braccia alla fucina indarno move
L'antiquiffimo fabbro Siciliano:
Ch' a Giove tolte fon l'arme di mano
Temprate in Mongibello a tutte prove;
E fua forella par, che fi rinnove
Nel bel guardo d' Apollo a mano a mano,
Del lito occidental fi move un fiato,
Che fa fecuro il navigar fenz' arte,

E defta i fior tra l'erba in ciafcun prato:
Stelle nojofe fuggon d'ogni parte
Difperfe dal bel vifo innamorato:
Per cui lagrime, molte fon già fparte.

********************

SONETTO XXXV

***

E

Rende ragione, perchè ritornata Laura, fecondo me, da un Morto
da cafa de 'fuoi Parenti, ancora duraffe il mal tempo.
dice ch' Apollo, poichè nove di l' ebbe cercata, fi nafcofe per
dolore, onde non la potè veder tornare. E di più, perchè
ella non aveva ancora rafciuti gli occhi dal pianto, non era
maraviglia, se l' Aere riteneffe il fuo ftato turbato.

1 figliuol di Latona avea già nove
Volte guardato dal balcon fovrano,
Per quella ch' alcun tempo moffe in vano
I fuoi fofpiri, ed or gli altrui commove:

Poi, che cercando ftanco non feppe, ove S'albergaffe, da preffo, o di lontano; Moftrofi a noi qual' uom per doglia infano, Che molto amata cofa non ritrove:

E così trifto ftandofi in difparte

Tornar non vide il vifo che laudato
Sarà, s' io vivo, in più di mille carte:
E pietà lui medefimo avea cangiato
Sì, ch'e begli occhi lagrimavan parte:
Però l'aere ritenne il primo ftato.

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SONETTO XXXVI.

Dimoftra la crudeltà di Laura, per comparazioni. Cefare pianfe Pompeo fuo nemico. Davidde pianfe Affalonne, e Saule fuoi nemici. Ma voi non piangete me che muojo, e non fono voftro nemico; e maffimamente che effi erano fieri uomini.

Que

uel ch' in Teffaglia ebbe le man sì pronte
A farla del civil fangue vermiglia;
Pianfe morto il marito di fua figlia
Raffigurato alle fattezze conte:

E'l paftor ch' a Golia ruppe la fronte,
Pianfe la ribellante fua famiglia;
E fopra 'l buon Saul cangiò le ciglia:
Ond' affai può dolerfi il fiero monte.

Ma voi, che mai pietà non difcolora,
E ch'avete gli fchermi fempre accorti
Contra l'arco d' Amor, che 'ndarno tira;

Mi vedete ftraziare a mille morti:

Nè lagrima però discese ancora

Da' be' voftr' occhi; ma difdegno, ed ira.

SONETTO XXXVII.

Si lamenta, che ella specchiandofi, innamoratati di se stessa, fi goda fenza curarfi d' altrui. Cerca di rimoverla da ciò con due argomenti. L'uno è, che egli è da più, che uno fpecchio. L'altro, che le potrebbe avvenire di quello che avvenne a Narciffo.

El mio avverfario, in cui veder folete

Gli occhi voftri, ch' Amore, e 'l ciel' onora;
Con le non fue bellezze y' innamora,
Più che 'n guifa mortal, foavi, e liete.

Per configlio di lui, Donna, m' avete
Scacciato del mio dolce albergo fora;
Mifero efilio! avvegnach' io non fora
D'abitar degno ove voi fola fiete.

Ma s' io v'era con faldi chiovi fiffo,
Non devea fpecchio farvi per mio danno,
A voi fteffa piacendo, afpra e fuperba.

Certo fe vi rimembra di Narciffo;

Quefto, e quel corfo ad un termino vanno:
Benchè di si bel fior fia indegna l'erba.

SONETTO XXXVIII.

La Vernata s adornava Laura non folamente d'oro, e di perle, ma di fiori, i quali ella doveva confervare con gran cura. Laonde parendo più bella, più s'innamorava il Petrarca, e più sentiva paffione; onde dubitava di morire. Dice non

dimeno, che un' altra cagione l'affanna più; e ciò fono gli fpecchi, per gli quali ella s'è innamorata di se steffa, li quali afferma effere ftati fabbricati in Inferno.

L

oro, e le perle, e i fior vermigli, e i bianchi, Che 'l verno devria far languidi, e fecchi; Son per me acerbi, e velenofi ftecchi, Ch'io provo per lo petto, e per li fianchi:

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Però i dì miei fien lagrimofi, e manchi:

Che gran duol rade volte avvien che 'nvecchi.
Ma più ne 'ncolpo i micidiali specchi,
Che 'n vagheggiar voi ftefla avete ftanchi.

Quefti pofer filenzio al fignor mio,

Che per me vi pregava; ond' ei fi tacque,
Veggendo in voi finir vostro defio:

Quefti fur fabbricati fopra l' acque

D'abiffo, e tinti nell' eterno obblio;
Onde 'l principio di mia morte nacque.

1

SONETTO XXXIX.

Par che Laura aveffe fatto a fapere al Petrarca, che per alcun rifpetto non dovesse paffarle davanti, ma ciò nonostante paffovvi. Or in quefto Sonetto fi fcufa di ciò, dicendo che, ricevendo vita da lei, è stato sforzato; e come pafciuto fe ne vivrà alcun tempo; e da capo, se non vorrà morire, farà sforzato a tornarvi.

Lo fentia dentr' al cor già venir meno
Gli fpirti, che da voi ricevon vita:
E perchè naturalmente s' aita

Contra la morte ogni animal terreno;

Larga' il defio, ch' i' teng' or molto a freno;
E mifil per la via quafi fmarrita;

Però che dì, e notte indi m' invita;
Ed io contra fua voglia altronde 'l meno.

E' mi conduffe vergognofo, e tardo

A riveder gli occhi leggiadri; ond' io,
Per non effer lor grave, affai mi guardo.

Vivrommi un tempo omai: ch' al viver mio
Tanta virtute ha fol' un voftro fguardo:
E poi morrò, s' io non credo al defio.

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