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Laffo, fe ragionando fi rinfrefca
Quell' ardente defio

Che nacque il giorno ch'io

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Laffai di me la miglior parte addietro;
E s Amar fe ne va per lungo obblio;
Chi mi conduce all' efca

Onde 'l mio dolor crefca?

E perchè pria tacendo non m' impetro?
Certo criftallo, o vetro

Non moftrò mai dinfores

Nafcofto altro colore;

2.11

9 19

Che l'alma feonfolata affai non moftri
Più chiari i pensier noftri,

E la fera dolcezza ch'è nel core;

Per gli occhi, che di fempre pianger vaghi
Cercan di, e notte pur chi glien' appaghi.

Novo piacer; che negli umani ingegni
Speffe volte fi trova;
D'amar, qual cofa nova

Più folta fchiera di fofpiri accoglia!

Ed io fon'un di quei che pianger giova:
E par ben, ch' io m'ingegni

Che di lagrime pregni

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Sien gli occhi miei, ficcome 'l cor di doglia:

E perche a ciò m' invoglia

Ragionar de' begli occhi;

(Ne cofa è che mi tocchi,

Ofentir mi fi faccia così addentro)
Corro fpeffo, e rientro

Cola donde più largo il duol trabocchi,
E fien col cor punite ambe le luci,
Ch' alla firada d' Amor mi furon duci.

Le treccie d'or, che devrien far il Sole
D' invidia molta ir pieno;

E' bel guardo fereno;

Ove i raggi d' Amor si caldi fono,
Che mi fanno anzi tempo venir meno;
E l'accorte parole

Rade nel mondo, o fole,

Che mi fer già di sè cortefe dono,
Mi fon tolte: e perdono

Più lieve ogni altra offefa,

Che l' effermi contefa

Quella benigna angelica falute
Che 'l mio cor' a virtute

Deftar folea con una voglia accefa:

Tal, ch' io non penfo udir cofa giammai,
Che mi conforte ad altro ch' a trar guai.

E per pianger ancor con più diletto;:
Le man bianche fottili,
E le braccia gentili,

1

E gli atti fuoi foavemente alteri,
Ei dolci fdegni alteramente umili,
E'l bel giovenil petto

Torre d'alto intelletto,

Mi celan quefti luoghi alpeftri, e feri:
E non fo s' io mi speri

Vederla anzi ch' io mora:

Però ch' ad ora ad ora

S' erge la fpeme, e poi non fa ftar ferma;

Ma ricadendo afferma

Di mai non veder lei che 'l ciel' onora;
Ove alberga Oneftate, e Cortefia,

E dov' io prego, che 'l mio albergo fia.

Canzon, s'al dolce loco

La Donna noftra vedi;
Credo ben, che tu credi

Ch' ella ti porgerà la bella mano,
Ond' io fon sì lontano.

Non la toccar: ma reverente a' piedi
Le dì, ch'io farò là tofto ch' io poffa,

O fpirto ignudo, od uom di carne, e d'offa.

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Ad Offo fcrive, dolendofi d'un velo, del chinar gli occhi, e della mano di Laura, che gl' impedifcano la vifta degli occhi più che non fanno altri impedimenti.

Orfo, e non furon mai fiumi, nè ftagni,
Nè mare, ov' ogni rivo fi difgombra;

Nè di muro, o di poggio, o di ramo ombra;
Ne nebbia, che 'I ciel copra, e 'l mondo bagni;
Nè altro impedimento, ond' io mi lagni;
Qualunque più l' umana vifta ingombra;
Quanto d'un vel, che due begli occhi adombra;
E par che dica: Or ti confuma, e piagni.
E quel lor' inchinar, ch' ogni mia gioja
Spegne, o per umiltate, o per orgoglio;
Cagion farà che 'nnanzi tempo i' moja:
E d'una bianca mano anco mi doglio;
Ch'è ftata fempre accorta a farmi noja,
E contra gli occhi miei s'è fatta fcoglio.

糕糕

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SONETTO XXXI.

Si fcufa che tardi fi muove a veder Laura. Non è, dice, proceduto da poco amore, ma da diliberato configlio molto prima, per non incontrare gli occhi turbati di Laura.

Lo temo sì de' begli occhi l' affalto,

Ne' quali Amore, e la mia morte albergas
Ch'i fuggo lor, come fanciul la verga;
E gran tempo è ch' io prefi'l primier falto,
Da ora innanzi faticofo, od alto.

Loco non fia dove I voler non s' erga;
Per non fcontrar chi i miei fenfi difperga,
Laffando, come fuol, me freddo finalto.
Dunque s'a veder voi tardo mi volfi,

Per non ravvicinarmi a chi mi ftrugge;
Fallir forfe non fu di fcufa indegno.
Più dico: Che'l tornare a quel ch' uom fugge:
El cor che di paura tanta fciolfi:
Fur della fede mia non leggier pegno.

SONETTO XXXII.

Aveva imprefoil Petrarca di voler accordar infieme la Dottrina Platonica, e la Criftiana; ed aveva mandato à domandare alcuni libri di Santo Agostino a Roma ad un'amico, il quale tardando a mandargli, gli fcrive il prefente Sonetto, follicitandolo, col dimostrargli l' onore graude, che n' uscirà.

S'Amore, o Morte non dà qualche ftroppio

Alla tela novella ch' ora ordifco;

E s' io mi fvolvo dal tenace visco,

Mentre che l'un con l'altro vero accoppio;

I' farò

I' farò forse un mio lavor sì doppio

opra

Tra lo ftil de' moderni, e 'l fermon prisco; Che (paventofamente a dirlo ardifco) Infin' a Roma n'udirai lo fcoppio. Mà però che mi manca a fornir l' Alquanto delle fila benedette, Ch'avanzaro a quel mio diletto Padre; Perchè tien' verfo me le man sì strette Contra tua ufanza? i' prego che tu l' E vedrai riuscir cofe leggiadre.

opra:

SONETTO XXXIII.

ma

I tre feguenti Sonetti fono teffuti con une medefime Rime:" i due fono di una materia, e continuati in guifa, che non fi può leggere il fecondo fenza il primo, cominciando da Ma. Or nel primo dice che, partendofi Laura, fi turba il tempo tuona, nevica, e piove fuori di ftagione: il Sole s'afconde, le Stelle crudeli mandano effetti rei; ę nafce tempefta in mare: vento trae in aere, in acqua, ed in terra.

Q

uando dal proprio fito fi rimove

L'arbor ch amò già Febo in corpo umano;
Sofpira, e fuda all' opera Vulcano,

Per rinfrescar l' afpre faette a Giove:
Il qual' or tona, or nevica, ed or piove
Senza onorar più Cefare, che Giano:
La terra piagne, e 'l Sol ci fta lontano,
Che la fua cara amica vede altrove.
Allor riprende ardir Saturno, e Marte
Crudeli ftelle, ed Orione armato
Spezza a' tristi nocchier governi, e farte:

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