Vidi David cantar celefti verfi,
E Giuda Macabeo, e Giofuè;
A cui 'l Sole, e la Luna immobil ferfi, Aleffandro, ch' al mondo briga diè;
Or l'Oceano tentava, e potea farlo; Morte vi s' interpofe, onde nol fè. Poi alla fin' Artù Re vidi, e Carlo.
uel c'ha noftra natura in sè più degno Di qua dal ben per cui l'umana essenza Dagli animali in parte fi diftingue, Cioè l'intellettiva conofcenza;
Mi pare un bello, un valorofo fdegno, Quando gran fiamma di malizia estingue: Che già non mille adamantine lingue Con le voci d'acciar foranti, e forti Poriano affai lodar quel di ch'io parlo: Nè io vengo a innalzarlo,
Ma a dirne alquanto a gl'intelletti accorti, Dico, che mille morti
Son picciol pregio a tal gioja, e sì nova; Si pochi oggi fen' trova;
Ch'i' credea ben, che foffe morte il feme; Ed e' fi ftava in sè raccolto infieme. Tutto penfofo un fpirito gentile
Pieno del fdegno ch'io giva cercando, Si ftava afcofo sì celatamente,
Ch'i' dicea fra me fteffo: Oimè quando Avrà mai fin queft' afpro tempo, e vile? Son di virtù si le faville fpente?
Vedea l'oppreffa, e miferabil gente
Giunta all' estremo, e non vedea il foccorfo Quinci, o quindi apparir da qualche parte. Così Saturno, e Marte
Chiufo avea'l paffo, ond' era tardo il corfo; Ch'allo fpietato morfo
Del tirannico dente empio, e feroce, Ch'affai più punge, e coce
Che Morte, od altro rio; poneffe'l freno, E riduceffe il bel tempo fereno. Libertà, dolce, e defiato bene,
Mal conosciuto a chi talor nol perde; Quanto gradita al buon mondo effer dei! Da te la vita vien fiorita, e verde; Per te ftato giojofo mi mantene, Ch'ir mi fa fomigliante a gli alti dei: Senza te lungamente non vorrei Ricchezze, onor', e ciò ch'uom più defia: Ma teco ogni tugurio acqueta l' alma. Ahi grave, e crudel falma,
Che n'avei ftanchi per si lunga via, Come non giunfi io pria
Che ti levaffi dalle noftre spalle? Si faticofo è'l calle
Per cui gran fama di virtù s'acquista, Ch' egli fpaventa altrui fol della vifta. Correggio fu, ficcome fona il nome,
Quel che venne ficuro all'alta imprefa Per mar, per terra, e per poggi, e per piani; E là ond' era più erta, e più contefa La ftrada all'importune noftre fome, Corfe, e foccorfe con affetti umani
Quel magnanimo; e poi con le fue mani
Piatofe a' buoni, ed a' nemici invitte, Ogni incarco dagli omeri ne tolse, E foave raccolte
Infieme quelle sparse genti afflitte; Alle quali interditte
Le paterne lor leggi eran per forza; Le quali a fcorza a scorza
Confunte avea l'infaziabil fame
De' can che fan le pecore lor grame. Sicilia de' tiranni antico nido,
Vide trifta Agatocle acerbo, e crudo; E vide i difpietati Dionigi,
E quel che fece il crudo fabbro ignudo Gittare il primo dolorofo ftrido, E far nell'arte fua primi veftigi: E la bella contrada di Trevigi Ha le piaghe ancor fresche d'Azzalino: Roma di Gajo, e di Neron fi lagna: E di molti Romagna;
Mantova duolfi ancor d'un Pafferino; Ma null' altro deftino,
Nè giogo fu mai duro, quanto'l noftro Era; nè carte, e inchiostro
Basterebben' al vero in quefto loco; Onde meglio è tacer, che dirne poco. Però non Cato, quel sì grande amico Di libertà, che più di lei non viffe; Non quel che'l Re Superbo spinfe fore, Non Fabj, o Decj di che ogni uomo fcriffe (Se riverenza del buon tempo antico Non mi vieta parlar quel c'ho nel core) Non altri al mondo, più verace amore Della fua patria in alcun tempo accefe;
Che non già mote, ma leggiadro ardire, E l'opra è da gradire,
Non meno in chi, falvando il fuo paese, Sè medefimo difefe,
Che'n colui che il fuo proprio fangue fparfe; Poi che le vene scarfe
Non eran, quando bifognato foffe: Nè Morte dal ben far gli animi fmoffe. E perchè nulla al fommo valor manche; La patria tolta all' unghie de' tiranni Liberamente in pace fi governa, E ristorando va gli antichi danni, E ripofando le fue parti ftanche, E ringraziando la pietà fuperna, Pregando che fua grazia faccia eterna; E ciò fi può fperar ben, s'io non erro: Perô ch' un' alma in quattro cori alberga; Ed una fola verga
E' in quattro mani, ed un medefimo ferro: quanto più, e più ferro
La mente nell' ufato immaginare,
Più conoscer mi pare,
Che per concordia il baffo ftato avanza, L'alto mantienfi: e queft' è mia fperanza. Lunge da' libri nata in mezzo l'arme,
Canzon, de' miglior quattro ch' io conofca, Per ogni parte ragionando andrai: Tu puoi ben dir, che'l fai,
Come lor gloria nulla nebbia offofca: E fe va' in terra Tofca,
Ch'appregia l'opre coraggiofe, e belle; Ivi conta di lor vere novelle.
onna mi viene spesso nella mente: Altra donna v'è fempre;
Ond' io temo fi ftempre'l core ardente. Quella 'l nutrica in amorofa fiamma,
Con un dolce martír pien di defire: Quefta lo strugge oltr' a mifura, e'nfiamma Tanto, ch'a doppio è forza che fofpire. Nè val perch'io m'adire, ed armi'l core; Ch'io non fo com' Amore
(Di che forte mi fdegno) del confente.
che nell' edizion di Firenze del 1522. fi trova dopo i Trionfi,
Nova bellezza in abito gentile
Volfe il mio core all'amorofa fchiera, Ov'il mal fi foften', e'l ben fi fpera. Gir mi convene, e ftar com'altri vole, Poi ch'al vago penfier fu pofto un freno Di dolci fdegni, e di pietofi fguardi: E' chiaro nome, el fon delle parole Della mia Donna, e'l bel vifo fereno Son le faville, Amor, perchè il cor m'ardi. Io pur fpero, quantunque che fia tardi: Ch'avvegna ella fi moftre acerba, e fiera; Umil'amante vince donna altiera.
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