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Io non fapea da tal vista levarme;
Quand' io udii: Pon mente all'altro lato; Che s'acquista ben pregio altro che d'arme. Volfimi da man manca, e vidi Plato;
Che'n quella fchiera andò più preffo al fegno Al qual' aggiunge a chi dal cielo è dato. Ariftotele poi pien d'alto ingegno:
Pitagora, che primo umilemente Filofofia chiamò per nome degno: Socrate, e Senofonte; e quell' ardente Vecchio a cui fur le Mufe tanto amiche, Ch' Argo, e Micena, e Troja se ne fente: Questi cantò gli errori, e le fatiche
Del figliuol di Laerte, e della Diva; Primo pittor delle memorie antiche, A man'a man con lui cantando giva Il Mantoan, che di par feco gioftra; Ed uno al cui paffar l'erba fioriva: Queft' è quel Marco Tullio in cui fi mostra Chiaro, quant' ha eloquenza e frutti, e fiori: Quefti fon gli occhi della lingua noftra. Dopo venía Demoftene; che fuori
E' di fperanza omai del primo loco, Non ben contento de' fecondi onori;
Un gran folgor parea tutto di foco: Efchine il dica; che'l potè fentire, Quando preffo al fuo tuon parve già roco.
Io non poffo per ordine ridire,
Quefto, o quel dove mi vedeffi, o quando; E qual' innanzi andar, e qual feguire: Che cofe innumerabili penfando,
E mirando la turba tale, e tanta, L'occhio il penfier m'andava desviando. Vidi Solon, di cui fu l'util pianta
Che s'è mal culta, mal frutto produce; Con gli altri fei di cui Grecia fi vanta. Qui vid'io noftra gente aver per duce
Varrone, il terzo gran lume Romano, Che quanto'l miro più, tanto più luce: Crifpo Saluftio, e feco a mano a mano Uno che gli ebbe invidia, è videl torto: Cioè 'l gran Tito Livio Padoano. Mentr'io mirava, fubito ebbi fcorto Quel Plinio Veronefe fno vicino, A fcriver molto, a morir poco accorto. Poi vidi'l gran Platonico Plotino;
Che credendofi in ozio viver falvo, Prevento fu dal fuo fiero deftino, Il qual feco venía dal matern' alvo; E però providenza ivi non valse:
Poi Craffo, Antonio, Ortenfio, Galba, e Calvo, Con Pollion, che'n tal fuperbia false,
Che contra quel d'Arpino armar le lingue Ei duo cercando fame indegne, e falfe, Tucidide vid' io, che ben diftingue
I tempi, ei luoghi, e loro opre leggiadre; E di che fangue qual campo s'impingue. Erodoto di Greca iftoria padre
Vidi; e dipinto il nobil Geometra Di triangoli, tondi, e forme quadre:
E quel che 'nver di noi divenne petra, Porfirio; che d'acuti fillogifmi Empiè la dialettica faretra,
Facendo contra'l vero arme i fofifmi;
E quel di Coo, che fè via miglior l'opra, Se ben' intesi foffer gli aforifmi. Apollo, ed Efculapio gli fon fopra,
Chiufi, ch'appena il vifo gli comprende: Si par che i nomi il tempo limi, e copra: Un di Pergamo il fegue: e da lui pende L'arte guafta fra noi, allor non vile, Ma breve, e ofcura; ei la dichiara, e ftende. Vidi Anasarco intrepido, e virile,
E Senocrate più faldo ch' un faffo; Che nulla forza il volfe ad atto vile. Vidi Archimede ftar col vifo baffo; E Democrito andar tutto penfofo, Per fuo voler di lume, e d'oro caffo. Vid' Ippia il vecchierel, che già fu ofo Dir: I'fo tutto; e poi di nulla certo, Ma d'ogni cofa Archefilao dubbiofo. Vidi in fuoi detti Eraclito coperto, E Diogene Cinico in fuoi fatti
Affai più che non vuol vergogna, aperto; E quel che lieto i fuoi campi disfatti Vide, e deferti, d'altra merce carco, Credendo averne invidiofi patti.
Iv'era il curiofo Dicearco,
Ed in fuoi magisterj affai difpari Quintiliano, e Seneca, e Plutarco. Vidivi alquanti c'han turbati i mari Con denti avverfi, ed intelletti vaghi; Non per faper, ma per contender chiari;
Urtar, come leoni; e, come draghi,
Con le code avvinchiarfi: or che è questo, Ch'ognun del fuo faper par che s'appaghi? Carneade vidi in fuoi ftudj si defto,
Che parland' egli, il vero, e'l falfo appena Si difcernea; così nel dir fu prefto. La lunga vita, e la fua larga vena
D'ingegno pofe in accordar le parti Che'l furor letterato a guerra mena. Nè'l potéo far: che come crebber l'arti, Crebbe l'invidia; e col fapere infeme Ne' cuori enfiati i fuoi veneni sparti. Contra'l buon Sire che l'umana fpeme Alzò, ponendo l'anima immortale, S'armò Epicuro; onde fua fama geme; Ardito a dir ch'ella non foffe tale: Così al lume fu famofo, e lippo Con la brigata al suo maestro eguale; Di Metrodoro parlo, e d'Ariftippo.
Poi con gran fubbio, e con mirabil fufo Vidi tela fottil teffer Crifippo.
Degli Stoici'l padre alzato in fufo;
Per far chiaro fuo dir, vidi Zenone Moftrar la palma aperta, e'l pugno chiuso: per fermar fua bella intenzione,
La fua tela gentil teffer Cleante;
Che tira al ver la vaga opinione.
Qui lafcio, e più di lor non dico avante.
Nel prefente Capitolo del Trionfo del Tempo fi contiene uno impedimento che fraftornava il Petrarca da feguire Fama, ancorachè per esempio di tanti valorofi Uomini tolle invitato a feguitarla e ciò era la forza del Tempo, per la quale la Fama. manca, e tofto.
Dell' aureo albergo con l'Aurora innanzi
Si ratto ufciva 1 Sol cinto di raggi, Che detto arefti: E' fi corcò pur dianzi. Alzato un poco, come fanno i faggi,
Guardofs' intorno; e da sè stesso diffe, Che penfi? omai convien che più cura aggi. Ecco, s' un' uom famoso in terra visse, E di fua fama per morir non esce; Che farà della legge che 'l ciel fiffe? E fe fama mortal morendo cresce,
Che fpegner fi doveva in breve; veggio Noftra eccellenza al fine; onde m' increfce. Che più s' afpetta, o che pote effer peggio? Che più nel ciel' ho io, che 'n terra un' uomo; A cui effer egual per grazia cheggio? Quattro cavai con quanto ftudio como, Pasco nell' Oceano, e fprono, e sferzo! E pur la fama d' un mortal non domo. Ingiuria da corruccio, e non da scherzo, Avvenir questo a me; s'io fofs' in cielo, Non dirò primo, ma fecondo, o terzo. Or conven che s'accenda ogni mio zelo
Sì, ch'al mio volo l'ira addoppj i vanni: Ch'io porto invidia a gli uomini, e nol celo.
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