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CANZONE 111

In quefta Canzone compofta alla guifa Provenzale fi contiene una difputa del Petrarca, fe debba lasciare

o nò.

amore di Laura,

Verdi panni, fanguigni, ofcuri, o perfi

Non veftì donna unquanco,

Nè d' or capelli in bionda treccia attörse
Sì bella, come quefta che mi fpoglia
D'arbitrio, e dal cammin di libertade
Seco mi tira sì, ch' io non foftegno
Alcun giogo men grave.

E fe pur

s'arma talor' a dolerfi

L'anima, a cui vien manco

Configlio, ove 'l martir l' adduce in forfes
Rappella lei dalla sfrenata voglia
Subito vista, che del cor mi rade
Ogni delira imprefa, ed ogni fdegno
Fa 1 veder lei foave..

Di quanto per amor giammai fofferfi,
Ed aggio a foffrir anco

Fin che mi fani 'I cor colei che 'l morfe
Rubella di mercè, che pur le 'nvoglia,
Vendetta fia; fol che contra umiltade
Orgoglio, ed ira il bel paffo ond' io vegno,'
Non chiuda, e non inchiave,

Ma l'ora, e 'l giorno ch' io le luci aperfi
Nel bel nero, e nel bianco,

Che mi fcacciar di là dov' Amor corse,
Novella d' efta vita che' m' addoglia,
Furon radice, e quella in cui l'etade

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Noftra fi mira, la qual piombo, o legno
Vedendo è chi non pave,

Lagrima adunque che dagli occhi verfi'
Per quelle che nel manco

Lato mi bagna chi primier s'accorfe,
Quadrella, dal voler mio non mi fvoglia:
Chen. giufta parte la fentenzia cade::
Per lei fofpira l'alma, ed ella è degno
Che le fue piaghe lave.

Da me fon fatti i miei penfier diverfi:
Tal già, qual' io mi ftanco,

L'amata fpada in sè fteffa contorfe.
Nè quella prego, che però mi fcioglia:
Che men fon dritte al ciel tutt' altré strade;
E non s'afpira al gloriofo regno

Certo in più falda nave.

Benigne ftelle, che compagne ferfi

Al fortunato fianco,

Quando 'l bel parto giù nel mondo scorfe!
Ch'è ftella in terra, e come in lauro foglia,
Conferva verde il pregio d' oneftade,
Ove non fpira folgore, nè indegno
Vento mai, che l'aggrave,

So io ben, ch' a voler chiuder in versi
Suo' laudi, fora ftanco

Chi più degna la mano a fcriver porfe,
Qual cella è di memoria, in cui s' accoglia
Quanta vede vertù, quanta beltade,
Chi gli occhi mira d'ogni valor fegno,
Dolce del mio cor chiave?

Quanto 'l Sol gira, Amor più caro pegno,
Donna, di voi non ave.

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II.

SESTINA

In questa Sestina propone di volere sempre amare Laura, ancorachè non ne speri nulla,

Griovane donna fott' un verde lauro

Vidi, più bianca, e più fredda che neve
Non percoffa dal Sol molti, e molt' anni:
El fuo parlar, e 'l bel vifo, e le chiome
Mi piacquen sì, ch'i'l' ho dinanzi a gli occhi
Ed avrò fempre ov' io fia, in poggio, o 'n riva,
Allor faranno i miei penfieri a riva,

Che foglia verde non fi trovi in lauro::
Quand' avrò queto il cor', afciutti gli occhi,
Vedrem ghiacciar il foco, arder la neve,
Non ho tanti capelli in queste chiome,
Quanti vorrei quel giorno attender anni.
Ma perchè vola il tempo, e fuggon gli anni
Sì, ch'alla morte in un punto s'arriva
O con le brune, o con le bianche chiome;
Seguirò l'ombra di quel dolce lauro
Per lo più ardente Sole, e per la neve,
Fin che l'ultimo di chiuda queft' occhi.
Non fur giammai veduti sì begli occhi
O nella noftra etade, o ne' prim' anni;
Che mi ftruggon così, come'l Sol neve:
Onde procede lagrimofa riva;

Ch' Amor conduce appiè del duro lauro
C' ha i rami di diamante, e d'or le chiome,
I'temo di cangiar pria volto, e chiome,
Che con vera pietà mi mostri gli occhi
L'idolo mio fcolpito in vivo lauro:

Che, s'al contar non erro, oggi ha fett' anni
Che fofpirando vo di riva in riva

La notte, e'l giorno, al caldo, ed alla neve.
Dentro pur foco, e for candida neve

Sol con questi penfier, con altre chiome
Sempre piangendo andrò per ogni riva
Per far forfe pietà venir negli occhi
Di tal che nascerà dopo mill' anni;
Se tanto viver può ben culto lauro.

L'auro, e i topazj al Sol fopra la neve
Vincon le bionde chiome, preffo a gli occhi
Che menan gli anni miei sì tosto a riva.

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SONETTO XXIV.

Effendo inferma Laura a morte, fi confola, confiderando il felice ftato di lei dopo la morte: perciocchè o farà pofta fecondo fua virtù fopra i Cieli, dove non fono Stelle, o ne' Cieli, dove fono Stelle. Se in quello luogo, dove non fono Stelle, avrà quello, che merita. Se dove fono Stelle, ofcurerà il Sole per invidia, e l'altre Stelle per isplendore. Ora è da fapere, che secondo i Maeftri in Iscrittura, dieci sono i Cieli, i nomi dequali, cominciando dal più basso, andando per ordine verfo l'alto fano quefti. Di Luna, di Mercurio, di Venere, di Sole, di Marte, di Giove, di Saturno, di Stelle appellate Fiffe, Criftallino, Empireo.

Quént

ueft' anima gentil che fi diparte
Anzi tempo chiamata all' altra vita;
Sa laffufo è, quant' effer de', gradita;
Terrà del ciel la più beata parte.

S'ella riman fra 'l terzo lume, e Marte,
Fia la vifta del Sole scolorita,

Poich' a mirar fua bellezza infinita
L'anime degne intorno a lei fien fparte.

Se fi pofaffe fotto 'l quarto nido,

Ciafcuna delle tre faria men bella,
Ed effa fola avria la fama, e 'l grido.

Nel quinto giro non abitrebb'ella;
Ma fe vola più alto, affai mi fido,
Che con Giove fia vinta ogni altra ftella.

SONETTÓ XXV.

Do

Il fentimento è tale: Tofto morrò, e con le quattro paffioni dell' animo, che mi fanno guerra, avrò pace; e di più conoscerò, come fenza cagione m' abbia lafciato tribolare dalle predette quattro paffioni. Le quattro paffioni pone chiaramente nel primo Terzetto. Speranza, Rifo per Allegrezza, Pianto per lore, Paura, ed Ira per Tema. Ripiglia nel fecondo Terzetto. quelle medefime quattro paffioni, due fotto quefto verbo Avanzare, che fignifica Acquistare, cioè Allegrezza, e Speranza; e due fotto Sofpirare, cioè Dolore, e Tema.

Quanto più m'avvicino al giorno estremo,

Che l'umana miferia fuol far breve,
Più veggio 'l tempo andar veloce, e leve,
E'l mio di lui fperar fallace, e scemo.

I' dico a' miei penfier, Non molto andremo
D'amor parlando ómai: che'l duro, e greve
Terreno incarco, come fresca neve,

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Si va ftruggendo: onde noi pace avremo:

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