Giovinetto pos'io nel coftui regno: Ond'altro ch'ira e fdegno
Non ebbi mai; e tanti, e sì diversi 'Tormenti ivi foffersi,
Ch'al fine vinta fu quell' infinita
Mia pazienza, e'n odio ebbi la vita Così'l mio tempo infin qui trapaffato
E' in fiamma, e'n pene; e quante utili oneste Vie fprezzai, quante fefte,
Per feguir quefto lufinghier crudele! E qual' ingegno ha sì parole prefte, Che ftringer poffa'l mio infelice ftato, E le mie d'efto ingrato
Tante, e si gravi, e sì giufte querele? O poco mel, molto aloè con fele! In quanto amaro ha la mia vita avvezza Con fua falfa dolcezza;
La qual m'attraffe all'amorofa fchiera! Che, s'i' non m'inganno, era Difpofto a follevarmi alto da terra; E' mi tolfe di pace, e pofe in guerra.
Quefti m'ha fatto men'amare Dio
Ch'i' non devea, e men curar me steffo: Per una Donna ho meffo
Egualmente in non cale ogni pensiero: Di ciò m'è ftato configlier fol' effo Sempr' aguzzando il giovenil defio
All' empia cote, ond'io
Sperai ripofo al fuo giogo afpro, e fero Mifero, a che quel chiaro ingegno altero, E l'altre doti a me date dal Cielo? Che vo cangiando'l pelo,
Nè cangiar poffo l'oftinata voglia; Così in tutto mi spoglia
Di libertà quefto crudel ch'i' accufo; Ch'amaro viver m'ha volto in dolce uso,
Cercar m'ha fatto deferti paefi;
Fiere, e ladri rapaci; ispidi dumi; Dure genti, e costumi,
Ed ogni error ch'e' pellegrini intrica; Monti, valli, paludi, e mari, e fiumi; Mille lacciuoli in ogni parte tefi; E'l verno in strani mefi
Con pericol prefente, e con fatica, Nè coftui, nè quell' altra mia nemica Ch'i' fuggia, mi lafciavan fol' un punto: Onde s'i' non fon giunto
Anzi tempo da morte acerba, e dura; Pietà celefte ha cura
Di mia falute, non quefto tiranno;
Che del mio duol fi pafce, e del mio danno. Poi che fuo fui, non ebbi ora tranquilla, Nè fpero aver; e le mie nottui il fonno Sbandiro, e più non ponno
Per erbe, o per incanti a sè ritrarlo. Per inganni, e per forza è fatto donno Sovra miei fpirti; e non fonò poi fquilla, Ov'io fia in qualche villa,
Ch'i'non l'udiffi: ei fa che'l vero parlo: Che legno vecchio mai non rofe tarlo, Come quefti'l mio core, in che s'annida, E di morte lo sfida.
Quinci nafcon le lagrime, e i martíri, Le parole, e i fofpiri
Di ch'io mi vo ftancando, e forfe altrui: Giudica tu, che me conofci, e lui.
Il mio avverfario con agre rampogne Comincia: O Donna, intendi l'altra parte; Che'l vero, onde fi parte
Queft' ingrato, dirà fenza difetto. Quefti in fua prima età fu dato all'arte Da vender parolette, anzi menzogne: Nè par che fi vergogne
Tolto da quella noja al mio diletto Lamentarfi di me; che puro, e netto Contra'l defio che fpeffo il fuo mal vole, Lui tenni, ond' or fi dole,
In dolce vita, ch' ei miferia chiama; Salito in qualche fama
Solo per me, che'l fuo intelletto alzai Ov'alzato per sè non fora mai.
Ei fa che'l grande Atride, e l'alto Achille, Ed Annibál' al terren voftro amaro, E di tutti il più chiaro
Un'altro e di virtute, e di fortuna; Com'a ciascun le fue ftelle ordinaro: Lafciai cader in vil'amor d'ancille: Ed a coftui di mille
Donne elette eccellenti n' eleffi una Qual non fi vedrà mai fotto la luna, Benchè Lucrezia ritornaffe a Roma; E si dolce idioma
Le diedi, ed un cantar tanto foave, Che penfier baffo, o grave Non potè mai durar dinanzi a lei. Quefti fur con coftui gl'inganni miei.
Questo fu il fel, questi gli fdegni, e l'ire, Più dolci affai che di null' altra il tutto. Di buon feme mal frutto
Mieto: e tal merito ha chi'ngrato ferve. Si l'avea fotto l'ali mie condutto,
Ch'a donne, e cavalier piacea'l fuo dire: E si alto falire
Il feci, che tra' caldi ingegni ferve Il fuo nome, e de' fuoi detti conferve Si fanno con diletto in alcun loco: Ch'or faria forfe un roco
Mormorador di corti, un'uom del vulgo: I'l'efalto, e divulgo
Per quel ch' egli 'mparò nella mia fcola, E da colei che fu nel mondo fola.
E per dir' all' eftremo il gran fervigio; Da mill' atti inonefti l'ho ritratto: Che mai per alcun patto
A lui piacer non potéo cofa vile; Giovane fchivo, e vergognofo in atto, Ed in penfier, poi che fatt' era uom ligio Di lei ch'alto vestigio
L'impreffe al core, e fecel fuo fimíle. Quanto ha del pellegrino, e del gentile, Da lei tene, e da me, di cui fi biafma. Mai notturno fantasma
D'error non fu si pien, com' ei ver noi: Ch'è in grazia da poi
Che ne conobbe, a Dio, ed alla gente: Di ciò il fuperbo fi lamenta, e pente.
Ancor' (e quefto è quel che tutto avanza) Da volar fopra'l Ciel gli avea dat' ali
Che fon fcala al Fattor, chi ben l'estima: Che mirando ei ben fifo, quante, e quali Eran virtuti in quella fua fperanza, D'una in altra fembianza
Potea levarfi all' alta cagion prima:
Ed ei l'ha detto alcuna volta in rima. Or m'ha pofto in obblio con quella Donna Ch'i' li die' per colonna
Della fua frale vita. A quefto un strido Lagrimofo alzo; e grido:
Ben me la diè, ma tofto la ritolse. Rifponde: Io nò, ma chi per sè la volfe.
Al fin'ambo converfi al giusto seggio;
Io con tremanti, ei con voci alte, e crude; Ciafcun per sè conchiude,
Nobile Donna, tua fentenza attendo. Ella allor forridendo;
Piacemi aver voftre queftioni udite;
Ma più tempo bifogna a tanta lite. *********** ******************
SONETTO LXXXII.
Conforto a lafciare l'operazioni giovenili, con biafimo della vita prefente.
Dicemi fpeffo il mio fidato fpeglio,
L'animo ftanco, e la cangiata fcorza, E la fcemata mia deftrezza, e forza: Non ti nafconder più: tu fe' pur veglio. Obbedir a Natura in tutto è il meglio:
Ch'a contender con lei il tempo ne sforza. Subito allor, com'acqua il foco ammorza, D'un lungo, e grave fonno mi rifveglio:
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