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Che Natura non vol, nè fi convene,

Per far ricco un, por gli altri in povertate: Or versò in una ogni fua largitate: Perdonimi qual' è bella, o fi tene. Non fu fimil bellezza antica, o nova, Nè farà, credo: ma fu sì coverta, Ch' appena fe n' accorfe il mondo errante. Tofto difparve; onde 'l cangiar mi giova La poca vifta a me dal Cielo offerta, Sol per piacer alle fue luci fante,

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Defiderio di convertirfi da cofa trascorrevole ad eterna,

tempo, o ciel volubil, che fuggendo
Inganni i ciechi, e miferi mortali;
O di veloci più che vento, e ftrali,
Or' ab efperto voftre frodi intendo:
Ma fcufo voi, e me fteffo riprendo:
Che Natura a volar v' áperse l'ali;
A me diede occhi: ed io pur ne' miei mali
Li tenni; onde vergogna, e dolor prendo.
E farebbe ora, ed è paffata omai,

Da rivoltarli in più ficura parte,
E poner fine a gl' infiniti guai.

Nè dal tuo giogo, Amor, l'alma fi parte,
Ma dal fuo mal; con che ftudio, tu 'l fai:
Non à cafo è virtute, anzi è bell' arte.

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Significa qual foffe Laura che egli fe n'innamorò: quando ella mori: e perchè,

Quel

uel che d'odore, e di color vincea
L'odorifero, e lucido Oriente,

Frutti, fiori, erbe, e frondi; onde 'l Ponente
D'ogni rara eccellenza il pregio avea,
Dolce mio Lauro, ov' abitar folea

Ogni bellezza, ogni virtute ardente,
Vedeva alla fua ombra oneftamente
Il mio Signor federfi, e la mia Dea.
Ancor' io il nido di penfieri eletti

Pofi in quell' alma pianta; e 'n foco, e'n gielo
Tremando, ardendo affai felice fui.

Pieno era 'l mondo de' fuo' onor perfetti
Allor che Dio per adornarne il Cielo,
La fi ritolfe; e cofa era da lui.

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SONETTO LXVII.

Rende la ragione, perchè niuno fi doglia della morte di Laura, se non egli, concioffiacofachè il danno tocchi ad ogn' uno,

Lafciato hai, Morte, fenza Sole il mondo
Ofcuro, e freddo: Amor cieco, ed inerme;
Leggiadria ignuda; le bellezze inferme;
Me fconfolato, ed a me grave pondo;

Cortefia in bando, ed oneftate in fondo:
Dogliom' io fol, nè fol' ho da dolerme:
Che fvelt' hai di virtute il chiaro germe,
Spento il primo valor: qual fia il fecondo?
Pianger l'aer', e la terra, e 'l mar devrebbe
L'uman legnaggio; che fenz' ella è quafi
Senza fior prato, o fenza gemma anello.
Non la conobbe il mondo mentre l'ebbe:
Conobbil' io, ch' a pianger qui rimafi;
E'l Ciel, che del mio pianto, or fi fa bello.

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O fi fcufa perchè non abbia feritto lodi uguali alle bellezze di Laura, o, che più mi piace, aggrandifce le virtù di Laura con render la ragione, perchè non n'abbia fcritto.

Conobbi; quanto il ciel gli occhi m'aperfe,

Quanto ftudio, ed Amor m' alzaron l'ali;
Cofe nove, e leggiadre, ma mortali;
Che 'n un foggetto ogni ftella cofperfe."

L'altre tante si ftrane, e si diverse
Forme altere, celefti, ed immortali,
Perchè non furo all' intelletto eguali,
La mia debile vifta non fofferfe.

Onde quant' io di lei parlai, nè fcriffi;

Ch' or per lodi anzi a Dio preghi mi rende;
Fu breve ftilla d'infiniti abiffi:

Che ftile oltra l'ingegno non fi ftende;
E per aver uom gli occhi nel Sol fiffi,
Tanto fi vede men, quanto più fplende,

SONETTO LXIX.

Non effendo confolato il Petrarca dall'apparizioni di Laura la 'nvi• ta ad apparirgli.

Dolce mio, caro, e prezioso pegno;

Che Natura mi tolfe, e 'l Ciel mi guarda;
Deh come è tua pietà ver me si tarda,
O ufato di mia vita foftegno?

Già fuo' tu far il mio fonno almen degno
Della tua vifta, ed or foften' ch'i' arda
Senz' alcun refrigerio; e chi'l ritarda?
Pur lafsù non alberga ira, nè fdegno;

Onde quaggiufo un ben pietofo core

Talor fi pafce degli altrui tormenti,
Sì, ch' egli è vinto nel fuo regno Amore,

Tu che dentro mi vedi, e 'l mio mal fenti,
E fola puoi finir tanto dolore;

Con la tua ombra acqueta i miei lamenti,

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Aveva il Petrarca fatta menzione a Laura che lo veniffe a confo

lare. Or in quefto racconta, come fu racconfolato, e per confer guente, predicando la confolazione, viene a ringraziarnę taci tamente Laura.

Deh

eh qual pietà, qual' Angel fu sì presto
A portar fopra'l Cielo il mio cordoglio?
Chancor fento tornar, pur come foglio,
Madonna in quel fuo atto dolce onefto
Ad acquetar il cor mifero, e mesto,
Piena sì d'umiltà, vota d'orgoglio,
E'n fomma tal, ch'a Morte i' mi ritoglio,
E vivo, e'l viver più non m'è molesto

Beata fe, che puo' beare altrui

Con la tua vifta, ovver con le parole
Intellette da noi foli ambedui,

Fedel mio caro, affai di te mi dole:
Ma pur per noftro ben dura ti fui,
Dice; e cos'altre d'arreftar il Sole.

SONETTO LXXI.

Commenda la confolazione, che gli reca Laura, apparendogli,

Del cibo onde'l Signor mio fempre abbonda,
Lagrime, e doglia, il cor laffo nudrifco;
E fpeffo-tremo, e spesso impallidifco
Penfando alla fua piaga afpra, e profonda,

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