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SONETTO LIII.

Rende la ragione perchè non venga mai nel luogo, dove fu allevata Laura, che non s'affliga; la quale è che fi ricorda, che Laura fu in quel luogo, e che più non v'è.

E

quefto 'l nido in che la mia Fenice
Mife l'aurate, e le purpuree penne;
Che fotto le fue ali il mio cor tenne;
E parole, e fofpiri anco ne elice?
O del dolce mio mal prima radice,

Ov'è'l bel vifo onde quel lume venne
Che vivo, e lieto ardendo mi mantenne?
Sola eri in terra, or fe' nel Ciel felice;
E me lafciato hai qui mifero, e folo,
Tal, che pien di duol fempre al loco torno
Che
per te confecrato onoro, e colo,
Veggendo a' colli ofcura notte intorno
Onde prendefti al Ciel l'ultimo volo;
E dove gli occhi tuoi folean far giorno.

SONETTO LIV.

Rifpofta ad un Sonetto di Jacopo Colonna per le confonanze, nel qual fi rallegrava col Petrarca dell' effere ftato coronato di Laurea nella piazza di Roma, il qual Sonetto gli pervenne alle mani dopo la morte d'effo Jacopo.

Mai

non vedranno le mie luci afciutte
Con le parti dell'animo tranquille
Quelle note ov' Amor par che sfaville,
E Pietà di fua man l'abbia conftrutte;

Spirto già invitto alle terrene lutte,
Ch'or fu dal Ciel tanta dolcezza ftille;
Ch'allo ftil' onde Morte dipartille,
Le difviate rime hai ricondutte.
Di mie tenere frondi altro lavoro

Credea moftrarte; e qual fero pianeta
Ne'nvidiò infieme? o mio nobil teforo,
Chi'nnanzi tempo mi t'afconde, e vieta,
Che col cor veggio, e con la lingua onoro?
E'n te, dolce fofpir, l'alma s'acqueta,

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CANZONE III.

Confiderando il Petrarca il fubito trapaffamento dell' eccellenze di Laura, prende ardire di fprezzare la Morte. E volendo à maggiore dimostrazione per fimilitudini palefare la virtù, e le bel lezze di Laura, e la fua morte, dice dopo lungo pensamento e vario, efferfi appigliato a quefte fei; cioè, ad una Fera con fronte umana, ad una Nave, ad un Lauró, ád una Fontana, ad una Fenice, e ad Euridice: e a ciascuna di queste fimilitu dini affegna una feparata Stanza.

Standomi un giorno folo alla finestra;

Onde cofe vedea tante, e sì nove,
Ch'era fol di mirar quafi già ftanco;
Una Fera m'apparve da man deftra
Con fronte umana, da far arder Giove,
Cacciata da duo veltri, un nero, un bianco;

Che l'uno, e l'altro fianco

Della Fera gentil mordean sì forte,

Che'n poco tempo la menaro al paffo

Ove chiufa in un faffo

Vinfe molta bellezza acerba morte:

E mi fè fofpirar fua dura forte,

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Indi per alto mar vidi una Nave

Con le farte di feta, e d'or la vela,
Tutta d'avorio, e d'ebeno contefta;
E'l mar tranquillo, e l'aura era foave;
El ciel, qual'è fe nulla nube il vela:
Ella carca di ricca merce onesta.
Poi repente tempefta

Oriental turbò si l'aere, e l'onde,
Che la Nave percoffe ad uno fcoglio.
O che grave cordoglio!

Breve ora oppreffe, e poco fpazio afconde
L'alte ricchezze a null'altre feconde.
In un bofchetto novo i rami fanti

Fiorian d'un Lauro giovenetto, e fchietto;
Ch'un degli arbor parea di paradifo.
E di fua ombra ufcian sì dolci canti
Di varj augelli, e tanto altro diletto,
Che dal mondo m'avean tutto divifo:
E mirandol' io fifo,

Cangiofs' il ciel' intorno; e tinto in vifta
Folgorando 'l percoffe; e da radice
Quella pianta felice

Subito fvelfe: onde mia vita è trifta:
Che fimil' ombra mai non fi racquifta.
Chiara Fontana in quel medefimo bofco
Surgea d'un faffo; ed acque frefche, e dolci
Spargea foavemente mormorando:

Al bel feggio ripofto, ombrofo, e fofco
Nè paftori appreffavan, nè bifolci,

Ma Ninfe, e Mufe, à quel tenor cantando.
Ivi m'affifi; e quando

Più dolcezza prendea di tal concento,

E di tal vifta; aprir vidi uno fpeco,
E portarfene feco

La Fonte, e'l loco; ond'ancor doglia fento,
E fol della memoria mi fgomento.
Una ftrania Fenice, ambedue l'ale

Di porpora veftita, e'l capo d'oro,
Vedendo per la felva, altera, e fola;
Veder forma celefte, ed immortale
Prima penfai, fin ch'allo fvelto Alloro
Giunfe, ed al Fonte che la terra invola.
Ogni cofa al fin vola:

Che mirando le frondi a terra fparse,

E'l troncon rotto, e quel vivo umor fecco;
Volfe in sè fteffa il becco

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Quafi fdegnando; e'n un punto disparse:
Onde'l cor di pietate, e d'amor m'arse.
Al fin vid' io per entro i fiori, e l' erba,
Penfofa ir sì leggiadra, e bella Donna;
Che mai nol penfo ch' i' non arda, e treme;
Umile in sè, ma 'ncontr' Amor fuperba:
Ed avea in doffo sì candida gonna,
Si tefta, ch' oro, e neve parea infeme:
Ma le parti fupreme

Erano avvolte d' una nebbia ofcura:
Punta poi nel tallon d'un picciol' angue,
Come fior colto langue,

Lieta fi dipartío, non che ficura.

Ahi, null' altro che pianto, al mondo dura.

Canzon, tu puoi ben dire;

Queste sei vifioni al fignor mio

Han fatto un dolce di morir defio.

BALLATA I.

Spiegamento di dolore fentito per la morte di Laura, e per la vita fua, confolato dalla certezza, che fia faputo da Laura.

Amor, quando fioria

Mia fpene, e 'l guidardon d'ogni mia fede,
Tolta m' è quella ond' attendea mercede.
Ahi difpietata morte, ahi crudel vita:
L'una m'ha pofto in doglia,

E mie fperanze acerbamente ha fpente:
L'altra mi ten quaggiù contra mia voglia;
E lei che fen' è gita,

Seguir non poffo; ch' ella nol confente:
Ma pur' ognor presente

Nel mezzo del mio cor Madonna fiede,
E qual'è la mia vita, ella fel vede.

CANZONE IV.

Propone di voler lodar Laura, e teme di non poterlo fare, se non è ajutato da Amore.

Ta

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acer non poffo, e temo non adopre
Contrario effetto la mia lingua al core;
Che vorria far onore

Alla fua Donna, che dal Ciel n' afcolta.
Come pofs' io; fe non m' infegni, Amore;
Con parole mortali agguagliar l' opre
Divine, e quel che copre

Alta umiltate in sè fteffa raccolta?
Nella bella prigione, ond' or' è fciolta,

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