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Pregando ch'al levar l'alma non tarde:
E fol quant' ella parla, ho pace, o tregua.

SONETTO XVIII.

Commendazione della foavità del parlar di Laura immaginata.

Se

e quell'aura foave de' fofpiri

Ch'i'odo di colei che qui fu mia

Donna, or'è in Cielo, ed ancor par qui fia,
E viva, e fenta, e vada, ed ami, e fpiri;

Ritrar poteffi; o che caldi defiri

Movrei parlando! si gelofa, e pia

Torna ov'io fon, temendo non fra via
Mi ftanchi, o'ndietro, o da man manca giri:

Ir dritto alto m'infegna: ed io, che 'ntendo
Le fue cafte lufinghe, e i giufti preghi
Col dolce mormorar, pietofo, e basso,
Secondo lei conven mi regga, e pieghi,
Per la dolcezza che del fuo dir prendo;
Ch'avria vertù di far pianger un faffo.

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SONETTO XIX.

Si confola della morte di Sennuccio per lo bene, che effo Sennuccio ne prende; e gli commette che faluti i Poeti amorofi nella Spera di Venere, e racconti alla fua Donna lo ftato fuo.

Sennuccio mio, benchè dogliofo, e folo

M'abbi laffato, i' pur mi riconforto:
Perchè del corpo ov'eri prefo, e morto,
Alteramente fe'levato a volo.

Or vedi infieme l'uno, e l'altro polo;
Le ftelle vaghe, e lor viaggio torto;
E vedi, 'l veder noftto quanto è corto;
Onde col tuo gioir tempro'l mio duolo.
Ma ben ti prego che'n la terza fpera

Guitton faluti, e meffer Cino, e Dante,
Francefchin noftro, e tutta quella fchiera.
Alla mia Donna puoi ben dire, in quante
Lagrime i'vivo; e fon fatto una fera,
Membrando 'l fuo bel vifo, e l'opre fante.

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SONETTO XX.

Dimoftrazione dello ftato nojofo fuo dopo la morte di Laura, che è di fofpirare, e di guardare d'in fu i colli di Valchiusa verso il piano, dove nacque Laura, e di piangere.

'ho pien di fofpir queft' aer tutto,
D'afpri colli mirando il dolce piano
Ove nacque colei ch'avendo in mano
Mio cor', in ful fiorire, e'n ful far frutto,

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E' gita al Cielo, ed hammi a tal condutto
Col fubito partir, che di lontano!

Gli occhi miei ftanchi, lei cercando in vano,
Preflo di sè non laffan loco asciutto.

Non è fterpo, nè faffo in quefti monti;
Non ramo, o fronda verde in queste piagge;
Non fior' in quefte valli, o foglia d'erba;
Stilla d'acqua non vien di quefte fonti;
Nè fiere han quefti bofchi si felvagge;
Che non fappian, quant'è mia pena acerba.

SONETTO XXI.

Confolazione della morte di Laura, per la quale egli ora s'avvede di quello che prima non s'avvedeva: e ciò era che la turbata vifta di Laura era per bene del Petrarca, e per onore

di lei.

2

L'alma mia fiamma oltra le belle bella;
Ch'ebbe qui'l ciel sì amico, e sì cortefe;
Anzi tempo per me nel fuo paesent v
E' ritornata, ed alla par fua ftella.

Or comincio a fvegliarmi; e veggio ch'ella
Per lo migliore al mio defir contefe;!
E quelle voglie giovenili accefe
Temprò con una vifta dolce, e fella,

Lei ne ringrazio, el fuo alto configlio,
Che col bel vifo, e co'foavi fdegni
Fecemi ardendo penfar mia falute,

O leggiadre arti, e lor effetti degni;

L'un con la lingua oprar, l'altra col ciglio,
Io gloria in lei, ed ella in me virtute!

SONETTO XXII.

Il Petrarca ringrazia Laura dell' afprezza ufata da lei verfo lui, ficcome della falute fua, fcufandofi perchè allora non riconoscesse cotale afprezza per salute.

Come val mondo! or mi diletta, e piace
Quel che più mi difpiacque: or veggio, e fento
Che per aver falute ebbi tormento,

E breve guerra per eterna pace.

O fperanza, o defir fempre fallace!

E degli amanti più, ben per un cento:
O quant' era'l peggior farmi contento
Quella ch'or fiede in Cielo, e 'n terra giace!

Ma'l cieco Amor', e la mia forda mente
Mi traviavan sì, ch'andar per viva
Forza mi convenia dove morte era.

Benedetta colei ch'a miglior riva

Volfe'l mio corfo: e l'empia voglia ardente
Lufingando affrenò, perch' io non pera.

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Q

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uand' io veggio dal ciel fcender l'Aurora
Con la fronte di rose, e co' crin d'oro;
Amor m' affale: ond' io mi difcoloro;
E dico fofpirando: Ivi è Laura ora,
O felice Titon! tu fai ben l' ora

Då ricovrare il tuo caro teforo:

Ma io che debbo far del dolce Alloro?
Che fe'l vo' riveder, conven ch' io mora.

I voftri dipartir non fon sì duri;

Ch' almen di notte fuol tornar colei

Che non ha a fchifo le tue bianche chiome:
Le mie notti fa trifte, e i giorni ofcuri
Quella che n'ha portato i penfier miei;
Ne di sè m' ha lafciato altro che 'l nome.

SONETTO XXIV.

Annoverato il ben, che per la morte di Laura ha perduto, poichè non more, afferma almeno di non volere cantare.

Gli occhi di ch' io parlai sì caldamente;

E le braccia, e le mani, e i piedi, e'l vifo;
Che m' avean si da me fteffo divifo,

E fatto fingular dall' altra gente;
Le crefpe chiome d'or puro lucente,
El lampeggiar dell' angelico rifo;
Che folean far in terra un paradifo;
Poca polvere fon, che nulla fente:

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