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Morte m'ha liberato un' altra volta;

E rotto'l nudo, e'l foco ha fpento, e sparso,
Contra la qual non val forza, nè 'ngegno.

SONETTO IV

Il Petrarca nè ha buon tempo, nè fpera mai di doverlo avere, perchè è preffo alla Morte: laonde non ci farebbe pure fpazio di darloff, quando lo fperaffe.

La vita fugge, e non s'arrefta un'ora;
E la morte vien dietro a gran giornate;
E le cofe prefenti, e le paffate

Mi danno guerra, e le future ancora;
E'l rimembrar', e l'afpettar m'accora
Or quinci, or quindi sì, che 'n veritate,
Se non ch'i' ho di me fteffo pietate,
I' farei già di quefti pensier fora.
Tornami avanti, s'alcun dolce mai
Ebbe'l cor trifto; e poi dall' altra parte
Veggio al mio navigar turbati i venti,
Veggio fortuna in porto, e ftanco omai
Il mio nocchier', e rotte arbore e farte,
E i lumi bei che mirar foglio, fpenti.

SONETTOV.

Morta Laura, i fentimenti del Corpo del Petrarca non aveva❤ no più da operarfi o per vederla, o per udirla: ma l'Anima col penfiero, e con la memoria andava ripetendo tutti gli atti fuoi; nè mai trovava ripolo. Per la qual cofa il Petrarca riprende l'Anima, e la fconforta da questa immaginazione.

Che

he fai? che penfi? che pur dietro guardi
Nel tempo che tornar non pote omai,
Anima fconfolata? che pur vai

Giugnendo legne al foco ove tu ardi?
Le foavi parole, ei dolci fguardi

Ch' ad un' ad un defcritti, e dipint' hai, Son levati da terra; ed è (ben fai) Qui ricercargli intempeftivo, e tardi. Deh non rinnovellar quel che n'ancide; Non feguir più penfier vago fallace, Ma faldo, e certo, ch'a buon fin ne guide. Cerchiamo'l Ciel, fe qui nulla ne piace; Che mal per noi quella beltà fi vide, Se viva, e morta ne devea tor pace.

***

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SONETTO VI.

De' penfieri fuoi, e del cuore fi duole il Petrarca, che fond nemici interni. Prende la fimilitudine d'una Città affediata da tre nemici di fuori, e conturbata da parte de' Cittadini dentro, e tradita da uno.

Datemi pace, o duri miei penfieri:

Non bafta ben, ch' Amor, Fortuna, e Morte
Mi fanno guerra intorno, e'n fu le porte,
Senza trovarmi dentro altri guerrieri?

E tu, mio cor', arcor fe' pur qual' eri,
Disleal'a me fol; che fere fcorte
Vai ricettando, e sei fatto conforte
De' miei nemici sì pronti, e leggieri:
In te i fecreti fuoi meffaggi Amore,
In re tpiega Fortuna ogni fua pompa,
E Morte la memoria di quel colpo
Che l'avanzo di me conven che rompa:

In te i vaghi penfier s'arman d'errore:
Perchè d'ogni mio mal te folo incolpo.

SONETTO VII.

A gli occhi, a gli orecchi, a' piè fignifica che Laura è morta; ammonendogli, che non gli debbano dar noja: perciocchè egli non è stato cagione della morte fua, ma che bialimino Morte, anzi lodino Dio che può, il che egli accenna non ofcuramente, fargli lieti dopo quefto dolore con prefta morte.

Occhi

cchi miei, ofcurato è'l noftro Sole,
Anzi è falito al Cielo, ed ivi fplende:
Ivi'l vedremo ancor': ivi n'attende;
E di noftro tardar forfe li dole,

Orecchie mie, l'angeliche parole

Suonano in parte ov'è chi meglio intende,
Piè miei, voftra ragion là non fi ftende
Ov'è colei ch' efercitar vi fole.

Dunque perchè mi dare quefta guerra?
Già di perder a voi cagion, non fui.
Vederla, udirla, e ritrovarla in terra.

Mor

Morte biafmate; anzi laudate lui

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Che lega, e fcioglie, e'n un punto apre, e ferra;
E dopo'l pianto fa far lieto altrui.

SONETTO VIII.

Si fcufa, perchè morta Laura fi lamenti, di che dice averne gran cagione per due ragioni; l'una che ha perduto l'unico rimedio fuo contra i fastidj mondani; l'altra che non è morto con ello lei.

Poi che la vifta angelica ferena

Per fubita partenza in gran dolore
Lafciato ha l'alma, e'n tenebrofo orrore;
Cerco parlando d'allentar mia pena.
Giufto duol certo a lamentar mi mena:
Saffel chi n'è cagion', e fallo Amore:
Ch'altro rimedio non avea'l mio core
Contra i faftidj onde la vita è piena.
Queft' un, Morte, m'ha tolto la tua mano,
E tu, che copri, e guardi, ed hai or teco,
Felice terra, quel bel vifo umano,
Me dove lafci fconfolato, e cieco;

Pofcia che'l dolce, ed amorofo, e piano
Lume degli occhi miei non è più meco?

SONETTO IX.

S'Amor novo configlio non n'apporta;

Per forza converrà che'l viver cange:
Tanta paura, e duol l'alma trifta ange;
Che'l defir vive, e la speranza è morta:

Onde fi sbigottifce, e fi fconforta >>

Mia vita in tutto, e notte, e giorno piange Stanca fenza governo in mar che frange, E'n dubbia via fenza fidata scorta. Immaginata guida la conduce;

Che la vera è fotterra; anzi è nel Cielo, Onde più che mai chiara al cor traluce. A gli occhi no: ch'un dolorofo velo Contende lor la defiata luce;

E me fa sì per tempo cangiar pelo.

SONETTO X.

Scrive la morte di Laura, e quello che le n'è avvenuto; e ad efempio fuo gli viene in defiderio di morire.

Nell'età fua più bella, e più fiorita;

Quand' aver fuol' Amor' in noi più forza,
Lafciando in terra la terrena fcorza

E' Laura mia vital da me partita:
E viva, e bella, e nuda al Ciel falita;
Indi mi fignoreggia, indi mi sforza.
Deh perchè me del mio mortal non fcorza
L'ultimo dì, ch'è primo all' altra vita?
Che come i miei penfier dietro a lei vanno;
Così leve, efpedita, e lieta l'alma

La fegua, ed io fia fuor di tanto affanno.
Ciò che s'indugia, è proprio per mio danno
Per far me ftello a me più grave salma.
O che bel morir' era oggi è terz' anno!

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