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Il cor prefo ivi, come pefce all'amo;
Onde a ben far per vivo efempio vienfi;
Al ver non volle gli occupati fenfi:

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O come novo augello al visco in ramo:
Ma la vifta privata del fuo obbietto,
Quafi fognando, fi facea far via;
Senza la qual' il fuo ben'è imperfetto;
L'alma tra l'una, e l'altra gloria mia
Qual celefte non fo novo diletto,
E qual ftrania dolcezza fi fentia.

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Accolto il Petrarca da lieta vifta di Laura, e da buone parole, fa quefto Sonetto.

Vi

ive faville ufcian de' duo bei lumi
Ver me sì dolcemente folgorando,
E parte d'un cor faggio fofpirando
D'alta eloquenza sì foavi fiumi;
Che pur' il rimembrar par mi confumi,?
Qual' ora a quel di torno ripenfando,
Come venieno i miei fpirti mancando
Al variar de' fuoi duri coftumi.

C.

L'alma nudrita fempre in doglie, e'n pene
(Quant'è'l poter d'una prefcritta ufanza!)
Contra'l doppio piacer sì inferma fue;
Ch'al gufto fol del difufato bene
་མས་མ་
Tremando or di paura, or di speranza
D'abbandonarmi fu fpeffo intra due.

SONETTO CCXXI.

Si duole il Poeta d' effere in Tofcana ne' luoghi populati dove, quando fcriffe quefto Sonetto, era, e difiderarebbe d'effere a Sorga in folitudine. Poi, fovvenutogli che questo luogo di Sorga spiaceva alla fua Donna, fi duole della Fortuna, che ancora nel defiderio lo fofpinga in quel luogo il quale è indegno dell eccellenza di Laura.

Cercato ho fempre folitaria vita

(Le rive il fanno, e le campagne, e i boschi)
Per fuggir queft' ingegni fordi, e lofchi
Che la ftrada del Ciel' hanno fmarrita:

E fe mia voglia in ciò foffe compita,
Fuor del dolce aere de' paefi Tofchi
Ancor m'avria tra fuoi be' colli fofchi
Sorga; ch'a pianger, e cantar m'aita.
Ma mia fortuna a me fempre nemica

Mi rifofpigne al loco ov'io mi fdegno
Veder nel fango il bel teforo mio:

J

Alla man' ond'io fcrivo è fatta amica
A quefta volta; e non è forse indegno:
Amor fel vide, e fal Madonna, ed io.

000000000000000000

SONETTO CCXXII. Commenda la bellezza di Laura, e principalmente gli occhi, per lo giudizio del fuo cuore, per comparazione foprapponendola alle Donne antiche famofe di beltà. Poi dice che questa eccellenza è di grande ornamento a Natura, e diletto a lui; ma che è troppo brieve, dubitando di quello che avvenne, che moriffe tofto.

In tale ftella duo begli occhi vidi

Tutti pien' d'oneftate, e di dolcezza,
Che preffo a quei d'Amor leggiadri nidi
Il mio cor laffo ogni altra vifta fprezza.
Non fi pareggi a lei qual più s'apprezza
In qualch' etade, in qualche ftrani lidi:
Non chi recò con fua vaga bellezza
In Grecia affanni, in Troja ultimi stridi:
Non la bella Romana che col ferro
April fuo cafto, e difdegnofo petto:
Non Poliffena, Iffifile, ed Argía.
Questa eccellenza è gloria (s'i'non erro)
Grande a Natura, a me fommo diletto:
Ma che? vien tardo, e fubito va via.

SONETTO CCXXIII.

Invita le Donne le quali cercano onore di fenno, di valore, di cortefia, che debbano riguardare negli occhi di Laura, dove troveranno ogni virtù,

Q

ual donna attende a gloriofa fama Di fenno, di valor, di cortefia; Miri fifo negli occhi a quella mia

Nemica che mia Donna il mondo chiama.

Gome s'acquifta onor, come Dio s'ama,
Com'è giunta oneftà con leggiadria,
Ivi s'impara; e qual' è dritta via

Di gir' al Ciel, che lei afpetta, e brama;
Ivi'l parlar che nullo ftile agguaglia;
E'l bel tacere, e quei fanti coftumi
Ch'ingegno uman non può fpiegar in carte.
L'infinita bellezza ch'altrui abbaglia,

Non vi s'impara: che quei dolci lumi
S'acquistan per ventura, e non per arte.

SONETTO CCXXIV.

Dice che vitá fenza oneftà è morte, adducendo l'efempio di Lucrezia che, perduta l' onestà, non potè vivere.

Cara la vita, e dopo lei mi pare

Vera onestà, che 'n bella donna fia.
L'ordine volgi: e'non fur, madre mia,
Senz'onestà mai cofe belle, o care:

E qual fi lafcia di fuo onor privare,

Nè donna è più, nè viva: e fe qual pria,
Appare in vifta, è tal vita afpra, e ria
Via più che morte, e di più pene amare:
Nè di Lucrezia mi maravigliai;

Se non, come a morir le bifognaffe
Ferro; e non le baftaffe il dolor folo.

Vengan quanti filofofi fur mai

A dir di ciò; tutte lor vie fien baffe:
E queft' una vedremo alzarfi a volo

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SONETTO CCXXV.

Commendazione della caftità di Laura, la quale appella Arbor vittoriofa, ec. fecondando il nome fuo, e dimoftrando infieme l'onore, e la caftità, della quale intende di parlare.

Arbor vittoriofa, e trionfale,

Onor d'imperadori, e di poeti; Quanti m'hai fatto di dogliofi, e lieti In quefta breve mia vita mortale! Vera Donna, ed a cui di nulla cale,

Se non d'onor, che fovr'ogni altra mieti; Nè d'Amor visco temi, o lacci, o reti; Nè'nganno altrui contra 'l tuo fenno vale. Gentilezza di fangue, e l'altre care

Cofe tra noi, perle, e rubini, ed oro, Quafi vil foma, egualmente difpregi. L'alta beltà ch'al mondo non ha pare, Noja te, fe non quanto il bel teforo Di caftità par ch'ella adorni, e fregi.

XXXX

CANZONE XXI.

Racconta il Petrarca in quefta Canzone, come è combattuto da tre, anzi da quattro penfieri. Il primo penfiero è per proprie forze di liberarfi dal Mondo, e dall' amore. Il fecondo è di farfi per fama immortale, il quale non può effer vinto dal primo. Il terzo fi è di seguire Amore, il quale uccide i due primi. Per la qual cofa falta nel quarto che è di domandare foccorfo a Dio, moftrando la debolezza delle fue forze.

I

vo penfando, e nel penfier m'affale
Una pietà si forte di me fteffo,

Che mi conduce fpeffo

Ad altro lagrimar ch'i' non foleva:

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