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Che fpeffo nel fuo volto veder parme
Vera pietà con grave dolor mista:
Ed udir cofe onde'l cor fede acquista
Che di gioja, e di speme si disarme,
Non ti fovven di quell'ultima fera,
Dic' ella, ch'i' lafciai gli occhi tuoi molli,
E sforzata dal tempo me n'andai?

I' non tel potei dir allor, nè volli:

Or tel dico per cosa esperta, e vera;
Non fperar di vedermi in terra mai,

SONETTO CCXIII.

Veduta una visione spaventevole, per la quale poteva comprendere Laura effer morta, cerca di confolarfi; si perchè penfa che altri gliele avrebbe fcritto, fi perchè l'Anima di Laura gli farebbe apparita: laonde vuole fperare d'averla a rivede Ma fe pure vero è che fia morta, prega Dio che lo faccia morir tofto.

re.

mifera, ed orribil vifione!

E' dunque ver ch' innanzi tempo spenta
Sia l'alma luce che fuol far contenta
Mia vita in pene, ed in fperanze bone?

Ma com'è che si gran romor non fone
Per altri meffi, o per lei fteffa il fenta?
Or già Dio, e Natura nol confența;
E falfa fia mia trista opinione.

A me pur giova di fperare ancora

La dolce vifta del bel vifo adorno,

Che me mantene, e'l fecol noftro onora.

Se per falir all'eterno foggiorno
Ufcita è pur del bell'albergo fora;
Prego, non tardi il mio ultimo giorno.

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SONETTO CCXIV.

Racconta quale stato fosse il suo nella lontananza; che fempre era combattuto dalla fperanza d'avere a vedere Laura, e dal timore di non l'avere a vedere, dubitando, che ella non voglia andare, morendo, in Cielo.

In dubbio di mio ftato or piango, or canto;
E temo, e fpero; ed in fofpiri, e'n rime
Sfogo'l mio incarco: Amor tutte fue lime
Ufa fopra'l mio cor'afflitto tanto.

Or fia giammai che quel bel vifo fanto
Renda a queft' occhi le lor luci prime?
(Laffo, non fo, che di me fteffo eftime:)
Oli condanni a fempiterno pianto?

E per prender il Ciel debito a lui,

Non curi che fi fia di loro in terra;
Di ch'egli è'l Sole, e non veggiono altrui?

In tal paura, e'n sì perpetua guerra

Vivo, ch'i' non fon più quel che già fui;
Qual chi per via dubbiofa teme, ed erra.

SONETTO CCXV.

dolci fguardi, o parolette accorte;

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Or fia mai'l dì ch'io vi riveggia, ed oda?
O chiome bionde, di che 'l cor m' annoda
Amor', e così prefo il mena a morte:

O bel vifo, a me dato in dura forte,

Di ch'io fempre pur pianga, e mai non goda:
O dolce inganno, ed amorofa froda;
Darmi un piacer che fol pena m'apporte!

E fe talor de begli occhi foavi

Ove mia vita, e'l mio penfiero alberga,
Forfe mi vien qualche dolcezza onesta;

"

Subito, acciò ch'ogni mio ben difperga,
E m'allontane, or fa cavalli, or navi
Fortuna, ch'al mio mal fempr'è sì presta.

SONETTO CCXVI.

Ora fpera che Laura fia viva, ed or teme che fia morta. 'pur' afcolto; e non odo novella

Della dolce ed amata mia nemica;

Ne fo che me

ne penfi, o che mi dica;
Si'l cor tema, e fperanza mi puntella:

Nocque ad alcuna già l'effer, si bella:
Qefta più d'altra è bella, e più pudica.
Forfe vuol Dio tal di virtute amica

Torre alla terra, e'n Ciel farne una stella;

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Anzi un Sole: e fe questo è, la mia vita,
I miei corti ripofi, ei lunghi affanni
Son giunti al fine. O dura dipartita,

Perchè lontan m'hai fatto da' miei danni?
La mia favola breve è già compita,
E fornito il mio tempo a mezzo gli anni.

SONETTO CCXVII.

Rende la ragione, perchè egli, contra l'usanza degli altri Innamorati, defideri la mattina, ed odj la fera. La quale è, che apparendo il Sole, fuôle apparire Laura, e tramontando, ella fi nafconde. E torna tutto ciò in lode dell' oneftà di Laura.

La fera defiar, odiar l'aurora

Soglion quefti tranquilli, e lieti amanti:
A me doppia la fera e doglia, e pianti:
La mattina è per me più felice ora;
Che fpeffo in un momento apron' allora
L'un Sole, e l'altro quafi duo Levanti,
Di beltate, e di lume sì fembianti,
Ch' anco'l ciel della terra s'innamora;

Come già fece allor ch'i primi rami
Verdeggiar che nel cor radice m'hanno;
Per cui fempre altrui più che me ftefs' ami.

Così di me due contrarie ore fanno:

E chi m'acqueta, è ben ragion ch'i' brami;
E tema, ed odj chi m'adduce affanno.

SONETTO CCXVIII.

Defidera amore in Laura, che farebbe vendetta, ed appagamento di quello, che egli per amore di lei fente: il che egli racconta.

Far potefs' io vendetta di colei

Che guardando, e parlando mi distrugge,
E per più doglia poi s'afconde, e fugge
Celando gli occhi a me sì dolci, e rei;
Così gli afflitti, e ftanchi fpirti miei
A poco a poco confumando fugge
E'n ful cor, quafi fero leon, rugge
La notte allor quand' io pofar devrei,
L'alma; cui Morte del fuo albergo caccia;
Da me fi parte; e di tal nodo fciolta
Vaffene pur' a lei che la minaccia.
Maravigliomi ben, s'alcuna volta

Mentre le parla, e piange, e poi l'abbraccia;
Non rompe'l fonno fuo; s'ella l'ascolta.

SONETTO CCXIX.

Si trovava il Petrarca a donneare Laura, e guardandola fissamente, Laura porfe la mano, traponendola tra gli occhi fuoi, e quelli del Petrarca, volendolo ammonire tacitamente, che non istava bene il così fattamente guardare. Ma il Petrarca, non ponendo mente, perchè ciò Laura fi facesse, accennava che levaffe via la porta mano; onde ella abbassatala dagli occhi fuoi, il Petrarca fentiva doppia dolcezza, per la vita della mano, e per la vifta degli occhi di Laura,

In quel bel vifo ch'i' fofpiro, e bramo,

Fermi eran gli occhi defiofi, e'ntenfi:
Quand' Amor porfe, quafi a dir: Che penfi?
Quell' onorata man che fecondo amo.

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