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Il mio cor, che per lei lafciar mi volle,

E fè gran fenno, e più, fe mai non riede;
Va or contando ove da quel bel piede
Segnata è l'erba, e da queft' occhi molle.
Seco fi ftringe, e dice a ciascun paffo;
Deh foffe or qui quel mifer pur'un poco,
Ch'è già di pianger, e di viver laffo.

Ella fel ride, e non è pari il gioco;
Tu paradifo, i'fenza core un faffo.
O facro, avventurofo, e dolce loco!

SONETTO CCVI.

Rifponde a Giovanni Dondi per le Rime, il quale, trovandofi in un grande affanno, gli domanda configlio. Or non si sa che affanno foffe quefto, ma quanto fi può comprendere *, ne' Verfi del Petrarca, era una impresa dannofa cominciata, la quale, lasciandola, erà di grandiflima vergogna.

1 mal mi preme, e mi spaventa il peggio:
Al qual veggio sì larga, e piana via;
Ch'i' fon' intrato in fimil frenefia;
E con duro penfier teco vaneggio:

Ne fo fe guerra, o pace a Dio mi cheggio;
Che'l danno è grave, e la vergogna è ria:
Ma perchè più languir? di noi pur fia
Quel ch' ordinato è già nel fommo feggio.
Bench'i'non fia di quel grande onor degno

Che tu mi fai; che te ne'nganna amore;
Che fpeffo occhio ben fan fa veder torto;

Pur

Pur d'alzar l'alma a quel celeste regno

El mio configlio, e di fpronare il core:
Perchè'l cammin'è lungo, e'l tempo è corto,

SONETTO CCVII.

Una perfona attempata, avendo due Rose, trovato il Petrarca, e Laura infieme, gli abbracciò, e dicendo loro: Non vede un fimil par d'amanti il Sole: a ciafcun di loro donà una Rofa. Racconta adunque nel prefente Sonetto tutta quefta azione.

Due rofe fresche, e colte in paradifo

L'altr'ier nafcendo il dì primo di Maggio,
Bel dono, e d'un'amante antiquo, e faggio,
Tra duo minori egualmente divifo:

Con sì dolce parlar', e con un rifo
Da far innamorar un'uom felvaggio,
Di sfavillante, ed amorofo raggio

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E l'uno, e l'altro fè cangiare il vifo.
Non vede un fimil par d'amanti il Sole,
Dicea ridendo, e fofpirando infieme;
E ftringendo ambedue, volgeasi attorno,

Così partia le rofe, e le parole:

Onde'l cor laffo ancor s'allegra, e teme.
O felice eloquenza! o lieto giorno!

SONETTO CCVIII.

Scherzando col nome di Laura, dice che l'Aura moveva i capelli di Laura, e che quefta tal cofa è di tanta dolcezza, che gli Uomini per maraviglia reftano adombrati. Poi, fovvenutogli che è mortale, priega Dio, che faccia prima lui morire, per non reftare al Mondo fenza così bella cola.

Laura che'l verde Lauro, e l'aureo crine
Soavemente fofpirando move;

Fa con fue vifte leggiadrette, e nove
L'anime da'lor corpi pellegrine.
Candida rofa nata in dure spine!

Quando fia chi fua pari al mondo trove? Gloria di noftra etate! O vivo Giove, Manda, prego, il mio in prima che 'l fuo fine; Sicch'io non veggia il gran pubblico danno, E'l mondo rimaner fenza'l fuo Sole: Nè gli occhi miei, che luce altra non hanno; Nè l'alma, che penfar d'altro non vole; Nè l'orecchie, ch'udir altro non fanno Senza l'onefte fue dolci parole.

SONETTO CCIX.

In quefto Sonetto fi fcufa di due cofe, e che lodi troppo Laura,

e che la lodi poco.

Parrà forfe ad alcun, che'n lodar quella:

Ch'i' adoro in terra, errante fia'l mio ftile,
Facendo lei fovr' ogni altra gentile,
Santa, faggia, leggiadra, onefta, e bella:

A me par' il contrario; e temo ch'ella
Non abbia a schifo il mio dir troppo umíle,
Degna d'affai più alto, e più fottile;

E chi nol crede, venga egli a vedella.*
Si dirà ben; Quello ove quefti afpira,
E' cofa da ftancar Atene, Arpino,

Mantova, e Smirna, e l'una e l'altra Lira,
Lingua mortale al suo stato divino

Giunger non pote: Amor la fpinge, e tira?
Non per elezion, ma per deftino.

* Per Vederla.

****

SONETTO CCX

Commendazione di Laura, e fcufa della baffezza del fuo ftile.

Chi vuol veder quantunque può Natura,

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E'l Ciel tra noi; venga a mirar coftei;
Ch'è fola un Sol, non pur' agli occhi miei,
M'al mondo cieco, che vertù non cura:
venga tofto; perchè Morte fura

Prima i migliori, e lascia star i rei:
Quefta afpettata al regno degli Dei
Cofa bella mortal paffa, e non dura.
Vedrà, s'arriva a tempo, ogni virtute,
Ogni bellezza, ogni real coftume
Giunti in un corpo con mirabil tempre.
Allor dirà, che mie rime fon mute,
L'ingegno offefo dal foverchio lume:
Ma fe più tarda, avrà da pianger fempre.

12

SONETTO CCXI.

Effendo il Petrarca lontano da Laura dubita della morte di lei, prima per la memoria dell' ultima fera, quando da lei fi parti, che era tutta malinconica, la quale non può lasciare.

Qual

paura ho quando mi torna a mente
Quel giorno ch'i' lasciai grave, e pensofa
Madonna, e'l mio cor feco! e non è cofa
Che si volentier penfi, e sì fovente.

Tla riveggio ftarfi umilemente

Tra belle donne, a guifa d'una rofa
Tra minor fior, nè lieta, nè dogliofa;
Come chi teme, ed altro mal non fente.
Depofta avea l'ufata leggiadria, .

Le perle, e le ghirlande, e i panni allegri,
E'l rifo, e'l canto, e'l parlar dolce umano.
Così in dubbio lafciai la vita mia.

Or trifti augurj, e fogni, e penfier negri
Mi danno affalto; e piaccia a Dio, che'n vano,

SONETTO CCXII.

Non può il Petrarca liberarfi da dolore, nè da timore, che dubita non fia morta Laura, perchè in altre lontananze gli foleva apparire, e confolarlo; ora gli appare, e lo spaventa, dicendogli che è morta.

Solea lontana in fonno confolarme

Con quella dolce angelica fua vista

Madonna: or mi fpaventa, e mi contrista;
Nè di duol, nè di tema poffo aitarme:

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