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Poi le vidi in un carro trionfale,

E Laura mia con fuoi fanti atti schifi
Sederfi in parte, e cantar dolcemente;

Non cofe umane, o vision mortale.
Felice Autumedon, felice Tifi,
Che conducefte si leggiadra gente!

SONETTO CXC.

Lontano il Petrarca da Laura dice quale vita è la fua.

Poi ri

volgendo il parlare al luogo, dove è Laura, dimostra por.

targli invidia.

Paffer mai folitario in alcun tetto

Non fu, quant'io; nè fera in alcun bofco:
Ch'i' non veggio'l bel vifo; e non conosco
Altro Sol; nè queft, occhi hann' altro obbietto.
Lagrimar fempre è 'l mio fommo diletto;
Il rider doglia; il cibo affenzio, e tofco;
La notte affanno; e'l ciel feren m'è fofco;
E duro campo di battaglia il letto.

Il Sonno è veramente, qual' uom dice,
Parente della Morte; e'l cor fottragge
A quel dolce penfier che 'n vita il tene.

Solo al mondo paese almo felice,

Verdi rive, fiorite ombrofe piagge,
Voi poffedete, ed io piango'l mio bene.

SONETTO CXCI

Era il Petrarca lontano da Laura. Or ficcome nel Sonetto precedente moftra d'invidiare al luogo, dove era Laura, così in quefto al Venticello che fpirava verfo quella parte, ed al Fiume, che difcorreva medefimamente verfo quella parte.

Aura, che quelle chiome bionde, e crepe.
Circondi, e movi, e fe' moffa da loro
Soavemente, e fpargi quel dolce oro,
E poi'l raccogli, e 'n bei nodi'l rincrefpe;
Tu ftai negli occhi ond'amorofe vefpe

Mi pungon sì, che 'n fin qua il fento, e ploro,
E vacillando cerco il mio teforo,

Com'animal che fpeffo adombre, e'ncespe:
Ch'or mel par ritrovar; ed or m'accorgo

Ch'i'ne fon lunge: or mi foilevo; or caggio;
Ch'or quel ch'i' bramo, or quel ch'è vero, fcorgo.

Aer felice, col bel vivo raggio

Rimanti: e tu corrente, e chiaro gorgo,
Che non pofs' io cangiar teco viaggio?

****

**********

SONETTO CXCII.

****

Narra fotto figura d'un Alloro tutta l'Iftoria del suo amore.

A

mor con la man deftra il lato manco

M' aperfe; e piantovv' entro in mezzo 'I core
Un Lauro verde sì, che di colore

Ogni fineraldo avria ben vinto, e flanco.

Vomer di penna con fofpir del fianco,

E'l piover giù dagli occhi un dolce umore
L'adornar sì, ch' al ciel n'andò l'odore,
Qual non fo già fe d'altre frondi unquanco.
Fama, onor', e virtute, e leggiadria,
Cafta bellezza in abito celefte

Son le radici della nobil pianta.
Tal la mi trovo al petto, ove ch'i' fia;
Felice incarco; e con preghiere oneste
L'adoro, e'nchino, come cofa fanta,

SONETTO CXCIII.

Dice che è felice nell' affanno, e rende la ragione, la quale è, che l'affanno gli viene da Donna di tanto valore, che per ciò non fi dee cura l'affanno.

Cantai;

or piango; e non men di dolcezza
Del pianger prendo, che del canto prefi:
Ch' alla cagion, non all' effetto intefi
Son' i 'miei fenfi vaghi pur d'altezza:
Indi e manfuetudine, e durezza,
Ed atti feri, ed umili, e cortefi
Porto egualmente; nè mi gravan pefi;
Nè l'arme mie punta di fdegni fpezza,
Tengan dunque ver me l'ufato ftile

Amor, Madonna, il mondo, e mia fortuna:
Ch'i' non penfo effer mai fe non felice.
Arda, o mora, o languifca; un più gentile

Stato del mio non è fotto la luna:

Si dolce è del mio amaro la radice.

1

SONETTO CXCIV.

Si rallegra che Laura gli ha renduta la vifta lieta; e per aggrandire l'allegrezza, dimoftra quale foffe la triftizia, quando era turbata, o non appariva. Poi dice che non lo fa però Signore di sè, ma folamente ha fatta pace, acciocchè viva.

I

pianfi; or canto; che'l celefte lume
Quel vivo Sole a gli occhi miei non cela,
Nel qual' onefto Amor chiaro rivela
Sua dolce forza, e fuo fanto coftume:

Onde e' fuol trar di lagrime tal fiume

Per accorciar del mio viver la tela;
Che non pur ponte, o guado, o remi, o vela,
Ma fcampar non potiemmi ale, nè piume.
Si profond' era, e di sì larga vena
Il pianger mio; e sì lungi la riva,
Ch' i'v'aggiungeva col penfier' appena.

Non lauro, o palma, ma tranquilla oliva

Pietà mi manda; e'l tempo rafferena;
E'l pianto asciuga; e vuol' ancor ch' i' viva,

000000000000:0000000000000

SONETTO CXCV.

Si duole del male degli occhi di Laura. Prima pone il bene, che egli ne sentiva, ancora quando gli fi moftravano turbati. Poi pone il male prefente degli occhi. Appreffo, dolendofi dell' Autore del male, domanda alla Natura, chi le ha data tanta poffanza di far male agli occhi di Laura. E perchè ogni poflanza è da Dio, almeno per permiflione, rivolge il parlare a Dio, quafi aggravandoti di tal permiffione.

'mi viveá di mia forte contento

Senza lagrime, e fenza invidia alcuna:
Che s'altro amante ha più deftra fortuna,
Mille piacer non vaglion' un tormento.

Or que' begli occhi ond' io mai non mi pento
Delle mie pene, e men non ne voglio una;
Tal nebbia copre, sì gravofa, e bruna,
Che'l Sol della mia vita ha quafi fpento.

O Natura, pietofa, e fera madre,

Onde tal poffa, e sì contrarie voglie
Di far cofe, e disfar tanto leggiadre?

D'un vivo fonte ogni poder s'accoglie:
Ma tu, come 'l confenti, o fommo Padre,
Che del tuo caro dono altri ne fpoglie?

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