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SONETTO CLXXVIII

Risponde ad alcuni che dicevano lui effere ftato ammaliato. Racconta le cagioni, che fono le doti in Laura, del fuo amore: le chiama grazie, che il Cielo doni a pochi, e fono quefte: Rara virtù, canuta mente in giovane età, beltà senza fuperbia, leggiadria, cantare, andare, fpirare, bellezza d'occhi, dire, fofpirare.

Grazie ch'a pochi'l ciel largo deftina:
Rara vertù, non già d'umana gente:
Sotto biondi capei canuta mente;
E'n umil donna alta beltà divina:

Leggiadria fingulare, e pellegrina;

E'l cantar che nell' anima fi fente:
L'andar celefte; e'l vago fpirto ardente,
Ch'ogni dur rompe, ed ogni altezza inchina:

E que'begli occhi, che i cor fanno fmalti,
Poffenti a rifchiarar abiffo, e notti,

. E torre l'alme a'corpi, e darle altrui;

Col dir pien d'intelletti dolci, ed alti;
Coi fofpir foavemente rotti:
Da quefti Magi trasformato fui,

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SESTINA VI.

Questa Seftina contiene un convertimento a Dio.

Narra l'Iftoria

del fuo amore; qual foffe l'Anima fua quando s'innamorò; qual foffe Laura; come mai per via alcuna non s'ha potuto deliberar da quefto amore; come parimente per l'avvenire non lo fpera. Si rivolge a Dio che l'ajuti, ricordandogli la fua Mifericordia, e dimoftrandogli la'nfelicità dello ftato fuo, e che facendolo ne farà lodato.

Anzi

nzi tre dì creata era alma in parte

Da por fua cura in cofe altere, e nove,
E difpregiar di quel ch'a molti è'n pregio:
Queft' ancor dubbia del fatal fuo corfo
Sola penfando, pargoletta, e fciolta
Intrò di primavera in un bel bofco.
Era un tenero fior nato in quel bosco

Il giorno avanti; e la radice in parte
Ch'appreffar nol poteva anima fciolta:
Che v'eran di lacciuo' forme sì nove,
E tal piacer precipitava al corfo;
Che perder libertate iv' era in pregio.
Caro, dolce, alto, e faticofo pregio,

iv'era

Che ratto mi volgefti al verde bofco,
Ufato di fviarme a mezzo'l corfo
Ed ho cerco poi'l mondo a parte a parte;
Se verfi, o pietre, o fuco d'erbe nove
Mi rendeffer'un dì la mente fciolta.

Ma, laffo, or veggio che la carne fciolta

Fia di quel nodo ond' è'l fuo maggior pregio,
Prima che medicine antiche, o nove
Saldin le piaghe ch'i' prefi'n quel bosco
Folto di fpine: ond'i'ho ben tal parte,
Che zoppo n'esco, e'ntraivi a sì gran corso.

Pien di lacci, e di ftecchi un duro corfo

Aggio a fornire; ove leggera, e fciolta
Pianta avrebbe uopo, e fana d'ogni parte.
Ma tu, Signor, c'hai di pietate il pregio,
Porgimi la man deftra in questo bofco:
Vinca 'I tuo Sol le mie tenebre nove,

Guarda'l mio ftato, alle vaghezze nove
Che'nterrompendo di mia vita il corfo
M'han fatto abitator d'ombroso bofco:
Rendimi, s'effer può, libera, e fciolta
L'errante mia conforte; e fia tuo 'l pregio,
S'ancor teco la trovo in miglior parte.

Or' ecco in parte le question mie nove;
S'alcun pregio in me vive, o'n tutto è corfo,
O l'alma fciolta, o ritenuta al bosco.

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SONETTO CLXXIX. A

T

Racconta alcune virtù dell'animo di Laura in ispeziale, e poi le virtù in generale. Appreffo trapaffa a raccontare quelle del corpo in ispeziale.

In nobil fangue vitá umíle, e queta,

Ed in alto intelletto un puro core;
Frutto fenile in ful giovenil fiore,
E'n afpetto penfofo anima lieta,

Raccolto ha'n questa Donna il fuo pianeta,
Anzi'l Re delle ftelle; e'l vero onore,
Le degne lode, e'l gran pregio, e'l valore
Ch'è da ftancar ogni divin poeta.

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Amor s'è in lei con oneftate aggiunto;
Con beltà naturale abito adorno;

Ed un' atto che parla con filenzio;

E non fo che negli occhi, che 'n un punto
Può far chiara la notte, ofcuro il giorno,
E'l mel' amaro, ed addolcir l'affenzio.

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SONETTO CLXX X.

Moftra per comparazione la'nfelicità del fuo ftato, poichè non folamente piange la notte, ma ancora il giorno.

Tutto'l dì piango; e poi la notte, quando
Prendon ripofo i miferi mortali,

Trovom' in pianto; e raddoppiarfi i mali:
Così spendo'l mio tempo lagrimando.

In trifto umor vo gli occhi confumando,
E'l cor' in doglia; e fon fra gli animali
L'ultimo sì, che gli amorofi strali
Mi tengon ad ognor di pace in bando.
Laflo! che pur dall'uno all' altro Sole,

E dall' un'ombra all' altra ho già'l più corfo
Di quefta morte che fi chiama vita.

Più l'altrui fallo che'l mio mal mi dole:
Che pietà viva, e'l mio fido foccorfo
Vedem'arder nel foco, e non m'aita.

}

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SONETTO CLXXXI.

Cercò il Petrarca due cofe, o di placare Laura, o di metterla come crudele in odio al Mondo. Ora tralafciato questo penfiero, dice di fcrivere per fare manifesta la fua bellezza al Mondo, acciocchè fi fappia, se penò, che penò per Donna che il valeva.

Grià defiai con sì giufta querela,

E'n si fervide rime farmi udire,
Ch'un foco di pietà feffi fentire
Al duro cor ch'a mezza ftate gela;
E l'empia nube che'l raffredda, e vela,
Rompeffe all'aura del mi' ardente dire;
O feffi quell'altru' in odio venire

Che i belli, onde mi struggo, occhi mi cela.

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Or non odio per lei, per me pietate

Cerco: che quel non vo', quefto non poffo:
'Tal fu mia ftella, e tal mia cruda forte:

Ma canto la divina fua beltate:

Che quand' i' fia di questa carne fcoffo
Sappia 'l mondo che dolce è la mia morte.

T

SONETTO CLXXXII
Commendazione di Laura.

ra quantunque leggiadre donne, e belle
Giunga coftei, ch' al mondo non ha pare;
Col fuo bel vifo fuol dell' altre fare
Quel che fal'l dì delle minori ftelle.

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