Per Rachel' ho servito, e non per Lia:
Nè con altra saprei Viver, e fosterrei, Quando 'l Ciel ne rappella,
Girmen con ella in ful carro d' Elia. *****************************
CANZONE X X. In questa Canzone si scusa, perchè sia molesto a Laura involandole
gli Iguardi: c la scusa è, che egli non vive d'altra cola, che de' suoi sguardi, ed ella gliele nega di dare, come faceva prima; e che poca molestia le dà, ellendo ella cosi ricca. Ma perchè non ne può involar canti, che li possa satollare, priega Amore
che l'uccida. Ben mi credea passar mio tempo omai,
Come paffato avea quest'anni addietro, Senz'altro studio, e senza novi ingegni: Or; poi che da Madonna i' non impetro L'usata aica; a che condotto m' hai, Tu'l vedi, Amor; che tal' arte m'insegni: Non so, s'i' me ne fdegni; Che'n questa età mi fai divenir ladro Del bel lume leggiadro Senza 'l qual non vivrei in tanti affanni: Così avess'io i prim’anni Preso lo stil ch'or prender mi bisogna ;
Che’n giovenil fallire è men vergogna. Gli occhi foavi onde io foglio aver vita,
Delle divine lor' alte bellezze Furmi in sul cominciar tanto cortesi; Che 'n guisa d'uom cui non proprie ricchezze, Ma celato di for soccorso aica, Vislimi: che nè lor, nè altri offeli.
Or;
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Or; bench' a me ne pefi; Divento ingiuriolo, ed importuno: Che'l poverel digiuno Vien'ad atto talor ch' in miglior stato Avria in altrui biasmato. Se le man di pierà ’nvidia m'ha chiuse;
Fame amorosa, e’l non poter mi scuse. Ch'io ho cercate già vie più di mille,
Per provar senza lor, fe mortal cofa Mi potesse tener in vita un giorno: L'anima, poi ch'altrove non ha posa, Corre pur' all' angeliche faville; Ed io, che son di cera, al foco torno; E pongo mente intorno Ove si fa men guardia a quel ch's bramo; E come augello in ramo, Ove men teme, ivi più costo è colto; Così dal suo bel volto L'involo or'uno, ed or’un altro sguardo;
E di ciò insieme mi nutrico, ed ardo. Di mia morte mi pasco, e vivo in fiamme;
Stranio cibo, e mirabil falamandra! Ma miracol non è; da tal si vole. Felice agnello alla penofa mandra Mi giacqui un tempo: or’all'estremo famme E Fortuna, ed Amor pur come fole. Così rofe, e viole Ha primavera, e'l verno ha neve, e ghiaccio: Però s'i' mi procaccio Quinci, e quindi alimenti al viver curto, Se vol dir che sia furto;
O
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Si ricca donna deve esser contenta
S'altri vive del suo, ch'ella nol senia. Chi nol sa, di ch'io vivo, e vissi sempre
Dal di che prima que' begli occhi vidi Che mi fecer cangiar vita, e costume? Per cercar terra, e mar da tutti lidi, Chi può saver tutte l'umane tempre? L'un vive, ecco, d'odor là sul gran fiume: lo qui di foco, e lume Quero i frali, e famelici miei spirti. Amor' (e vo'ben dirti) Disconviensi a signor l'esser sì parco. Tu hai li strali, e l'arco: Fa di tua man, non pur bramando, i
Ch'un bel morir tutta la vita onora. Chiusa fiamma è più ardente; e fe pur cresce,
In alcun modo più non può celarsi: Amor', i' 'l so; che'l provo alle tue mani. Vedefti ben, quando sì tacito arsi: Or de' miei gridi a me medesmo incresce; Che vo nojando e prossimi, e lontani. O mondo, o pensier vani! O mia forte ventura a che m'adduce! O di che vaga luce Al cor mi nacque la tenace fpeme Onde l'annoda, e preme Quella che con tua forza al fin mi mena!
La colpa è vostra; e mio 'l danno, e la pena, Così di ben'amar porto tormento;
E del peccato altrui cheggio perdono, Anzi del mio; che devea torcer gli occhi
Dal troppo lume, e di Sirene al suono Chiuder gli orecchi; ed ancor non men pento, Che di dolce veleno il cor trabocchi. Aspect'io pur, che scocchi L'ultimo colpo chi mi diede il primo: E fia; s'i' dritto estimo; Un modo di pietate occider tosto, Non effend' ei disposto A far alcro di me che quel che foglia:
Che ben mor chi morendo esce di doglia. Canzon mia, fermo in campo
Staro: ch'egli è difnor morir fuggendo, E me fteslo riprendo Di tai lamenti; sì dolce è mia forte, Pianto, fofpiri, e morte. Servo d'Amor che queste rime leggi, Ben non ha’l mondo che 'l mio mal pareggi.
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SONETTO CLXXI11. Veniva il Petrarca di verso l'Alpi, e andava a Laura, e, trovan
dosi in su il Rodano, gli dice che debba, poichè la Natura il mena verso Laura, nè fi ftanca, nè dorme, dirle da sua
che lo Spirto è pronto di venir a lei, ma che la Carne e stanca. Rapido fiume; che d'alpestra vena
Rodendo intorno, onde'l tuo nome prendi, Notte, e di meco defiofo fcendi
Ov’Amor me, te sol natura mena; Vattene innanzi: il tuo corso non frena
Nè stanchezza, nè sonno: e pria che rendi Suo dritto al mar; fifo, ù * fi mostri, attendi L'erba più verde, e l' aria più serena: Per Ove,
Ivi è quel nostro vivo, e dolce Sole
Ch'adorna, e’nfiora la tua riva manca:
Forse (o che spero!) il mio tardar le dole. Baciale'l piede, o la man bella, e bianca:
Dille; 11 baciar sie’n vece di parole: Lo spirto è pronto, ma la carne è stanca.
SONETTO CLXXIV. Dimostra quale sia suo stato, allontanandoli da Laura, che ha dinan
zi agli occhi il luogo dove è Laura. Nè per andare li scosta dal detto luogo, nè fi ritrae dall' amoroso giogo, anzi più vi fotcentra : ficcome il Cervo fedito di faetta avvelenata, quanto
più s'affretta, e fugge, tanto più s'avvelena, e s'impiaga. I dolci colli ov'io lasciai me stesso,
Partendo onde partir giammai non posso; Mi vanno innanzi; ed emmi ognor' addosso
Quel caro peso ch' Amor m'ha commeslo. Meco di me mi maraviglio spesso;
Ch'i' pur vo sempre, e non son' ancor moflo Dal bel giogo più volte indarno scoffo:
Ma com più men’allungo, e più m'appresso. E qual cervo ferito di faetta
Col ferro avvelenato dentro al fianco
Fugge, e più duolfi, quanto più s'affretta ; Tal'io con quello stral dal lato manco
Che mi consuma, e parte mi dilecta ; Di duol mi struggo, e di fuggir mi stanco.
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