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Quefta è commendazione della Voce, de'Capelli, dell'Ombra, Pe degli Occhi di Laura.

L'Aura celefte che'n quel verde Lauro

Spira ov'Amor feri nel fianco Apollo,
Ed a me pofe un dolce giogo al collo,
Tal, che mia libertà tardi reftauro;

Può quello in me che nel gran vecchio Mauro
Medufa, quando in felce trasformollo:
Nè poffo dal bel nodo omai dar crollo,
La've'l Sol perde, non pur l'ambra, o l'auro.

Dico le chiome bionde, e'l crefpo laccio
Che si foavemente lega, e ftringe
L'alma, che d'umiltate, e non d'altr'armo.

L'ombra fua fola fa'l mio core un ghiaccio,
E di bianca paura il vifo tinge:

Ma gli occhi hanno virtù di farne un marmo.

SONETTO CLXV.

Si fcufa, perchè non celebri quale fia l'arder degli occhi, e il folgorar delle chiome di Laura. E la fcufa è, che non fi può celebrar cofa con parole, che non fi comprenda prima con la

mente.

Aura foave ch'al Sol. fpiega, e vibra
L'auro ch' Amor di fua man fila, e teffe;
Là da' begli occhi, e dalle chiome stesse
Lega'l cor laffo, e i levi fpirti cribra.

Non ho midolla in offo, o fangue in fibra,
Ch'i' non fenta tremar; pur ch' i' m' appreffe
Dov'è chi morte, e vita infieme fpeffe
Volte in frale bilancia appende, e libra;
Vedendo arder i lumi ond' io m' accendo;
E folgorar i nodi ond' io fon prefo,
Or fu l'omero deftro, ed or ful manco,
I' nol paffo ridir; che nol comprendo;
Da ta': due luci è l' intelletto offefo,
E di tanta dolcezza oppreffo, e ftanco.

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Si rallegra del furto d'un guanto tolto a Laura.

bella man, che mi diftringi 'l core,
E'n poco fpazio la mia vita chiudi;
Man', ov' ogni arte, e tutti loro studi
Pofer Natura, e 'l Ciel per farfi onore;

Di cinque perle oriental colore,

E fol nelle mie piaghe acerbi, e crudi,
Diti fchietti foavi; a tempo ignudi
Confente or voi, per arricchirmi Amore;

Candido, leggiadretto, e caro guanto,

Che copria netto avorio, e fresche rose;
Chi vide al mondo mai sì dolci spoglie?

Così avefs' io del bel velo altrettanto.

O incoftanza dell' umane cofe!

Pur questo è furto; e vien ch' i' me ne fpoglie.

SONETTO CLXVII.

Non pur quell' una bella ignuda mano

Che con grave mio danno fi riveste;
Ma l'altra, e le duo braccia accorte, e preste
Son' a ftringer il cor timido, e piano.

Lacci Amor mille, e neffun tende in vano
Fra quelle vaghe nove forme oneste:
Ch' adornan sì l'alt' abito celefte,

Ch' aggiunger nol può ftil, nè 'ngegno umano ;
Gli occhi fereni, e le ftellanti ciglia;
La bella bocca angelica, di perle
Piena, e di rofe, e di dolci parole,
Che fanno altrui tremar di maraviglia;
E la fronte, e le chiome ch' a vederle
Di ftate a mezzo dì vincono il Sole.

SONETTO CLXVIII.

Si duole di sè steffo che abbia reftituito il guanto a Laura.

Mia ventura, ed Amor m'avean sì adorno
D' un bell' aurato, e ferico trapunto;
Ch' al fommo del mio ben quafi era aggiunte
Penfando meco a chi fu quest' intorno:
Nè mi riede alla mente mai quel giorno
Che mi fe' ricco, e povero in un punto;
Ch'i' non fia d'ira, e di dolor compunto,
Pien di vergogna, è d' amorofo fcorno;

Che la mia nobil preda non più ftretta
Tenni albifogno; e non fui più costante
Contra lo sforzo fol d' un' angioletta;

O fuggendo, ale non giunfi alle piante,
Per far almen di quella man vendetta
Che degli occhi mi trae lagrime tante.

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Pone prima la miferia del fuo infelice ftato. Poi quale rimedio farebbe a ciò. Appreffo la difperazione di quefto rimedio. Ultimamente dà la colpa di ciò al suo deftino.

D

un bel, chiaro, polito, e vivo ghiaccio
Move la fiamma che m' incende, e strugge,
E sì le vene, e'l cor m' afciuga, e fugge,
Che 'nvifibilemente i' mi disfaccio.

Morte, già per ferire alzato 'l braccio,
Come irato ciel tona, o leon rugge,
Va perfeguendo mia vita, che fugge;
Ed io pien di paura tremo, e taccio.

Ben poria ancor pietà con amor mista
Per foftegno di me doppia colonna
Porfi fra l'alma ftanca, e 'l mortal colpo:
Ma io nol credo, nè 'l conofco in vista
Di quella dolce mia nemica, e donna:
Nè di ciò lei, ma mia ventura incolpo.

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: SONETTO CLXX.

Per due ragioni tenta d' indurre Laura ad avergli compaffione, e perchè è mifero, e perchè egli il merita da Laura.

Laffo, ch' i' ardo, ed altri non mel crede:
Si crede ogni uom, fe non fola colei
Che fovr' ogni altra, e ch' i̇' fola vorrei:
Ella non par che 'l creda, e sì fel vede:

'Infinita bellezza, e poca fede,

Non vedete voi'l cor negli occhi miei?
Se non foffe mia ftella, i' pur devrei
Al fonte di pietà trovar mercede.
Queft' arder mio, di che vi cal sì poco,
Ei voftri onori in mie rime diffufi
Ne porian' infiammar fors' ancor mille:

Ch'i' veggio nel penfier, dolce mio foco,
Fredda una lingua, e duo begli occhi chiufi
Rimaner, dopo noi pien' di faville.

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SONETTO CLXXI. .

Conforta l' Anima a rivolgerfi a Dio con l' esempio delle ni, e con la predicazione delle parole di Laura.

Anima; che diverfe cose tante

operazio

Vedi, odi, e leggi, e parli, e fcrivi, e penfi;
Occhi miei vaghi; e tu fra gli altri sensi
Che fcorgi al cor l' alte parole fante;

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