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SONETTO

CLVII.

Scrive una vifione, fotto la quale dipinge il fuo innamoramento, e s'indovina quello che gli avvenne; cioè che Latra moriffe di mezza età.

na candida cerva fopra l'erba

Verde m'apparve con duo corna d'oro
Fra due riviere all'ombra d'un' Alloro
Levando'l Sole alla stagion'acerba.

Era fua vifta sì dolce fuperba,

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Ch'i' lafciai per feguirla ogni lavoro:
Come l'avaro, che'n cercar teforo
Con diletto l'affanno difacerba.

Neffun mi tocchi, al bel collo d'intorno
Scritto avea di diamanti, e di topazj;
Libera farmi al mio Cefare parve.

Ed era'l Sol già volto al mezzo giorno;

Gli occhi miei flanchi di mirar, non fazj;
Quand'io caddi nell'acqua, ed ella fparve.

SONETTO CLVIII.

Il Petrarca dice che, ficcome Eterna Vita è vedere Dio, così a lui è felice vita il vedere Laura.

Siccome

ome eterna vita è veder Dio,

Nè più fi brama, nè bramar più lice;
Così me, Donna, il voi veder, felice
Fa in quefto breve, e frale viver mio.

Ne voi fteffa, com'or, bella vidio

Giammai; fe vero al cor l'occhio ridice;
Dolce del mio penfier' óra beatrice;
Che vince ogni alta fpeme, ogni defio.
E fe non foffe il fuo fuggir sì ratto,

Più non dimanderei: che s'alcun vive
Sol d'odore, e tal fama fede acquista;

Alcun d'acqua, o di foco il gufto, e'l tatto
Acquetan, cofe d'ogni dolzor prive;
I' perchè non della voftr'alma vifta?

SONETTO CLIX.

Commendazione dell'andar di Laura per una Valle. Invita Amore a vederla andare,

Stiamo, Amor', a veder la gloria nostra

Cofe fopra natura altere, e nove:
Vedi ben, quanta in lei dolcezza piove:
Vedi lume che 'l cielo in terra moftra:

Vedi, quant'arte dora, e'mperla, e'nnoftra
L'abito eletto, e mai non visto altrove;
Che dolcemente i piedi, e gli occhi move
Per quefta di bei colli ombrofa chiostra!

L'erbetta verde, e i fior di color mille

Sparfi fotto quell'elce antiqua, e negra,
Pregan pur, che'l bel piè li prema, o tocchi;
E'l ciel di vaghe, e lucide faville

S'accende intorno; e'n vifta fi rallegra
D'effer fatto feren da sì begli occhi,

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SONETTO CLX.

Dimoftra l'allegrezza, che prende di veder il vifo di Laura, e d'udirla parlare. Prende la traslazione del mangiare, e del bere, e la comparazione della vivanda, e del beveraggio di Giove: referisce il vedere al mangiare, e l'udire al bere.

Pafco la mente d'un sì nobil cibo,

Ch'ambrofia, e néttar non invidio a Giove:
Che fol mirando, obblio nell'alma piove
D'ogni altro dolce, e Lete al fondo bibo.
Talor, ch'odo dir cofe, e'n cor defcribo,
Perchè da fofpirar fempre ritrove;
Ratto per man d'Amor; nè fo ben dove,
Doppia dolcezza in un volto delibo:
Che quella voce infin'al ciel gradita

Suona in parole sì leggiadre, e care,
Che penfar nol poria chi non l'ha udita,
Allor'infieme in men d'un palmo appare
Vifibilmente, quanto in questa vita
Arte, ingegno, e natura, e'l ciel può fare.

SONETTO CLXI.

Giugneva in Provenza, e veniva di Toscana per trovare ripofo alla fua affannata mente: e quantunque quivi truovi ancora affanno, nondimeno non fi cura di partirfene, perchè pur v'ha alcun conforto.

L'Aura gentil che rafferena i poggi

Deftando i fior per quefto ombrofo bosco,
Al foave fuo fpirto riconosco;

Per cui conven che'n pena, e'n fama poggi.

Per ritrovar ove'l cor laffo appoggi,

Fuggo dal mio natío dolce aere Tofco:
Per far lume al penfier torbido, e fofco,
Cerco'l mio Sole; e fpero vederlo oggi:
Nel qual provo dolcezze tante, e tali,

Ch'Amor per forza a lui mi riconduce;
Poi si m'abbaglia, che'l fuggir m'è tardo.
Io chiedere'a fcampar non arme, anzi ali:
Ma perir mi dà'l ciel per quefta luce;
Che da lunge mi ftruggo, e da prefs'ardo.

SONETTO CLXII.

Confiderata la fua età, fi maraviglia che non lafci Pamore. Poi, tornato in miglior fenno, dice alcune cofc impoffibili dovere prima effere, che lui effere fenza amore.

Di di in dì vo cangiando il viso, e'l pelo:

Nè però fmorfo i dolce inefcati ami;
Nè sbranco i verdi, ed invefcati rami
Dell'arbor che nè Sol cura, nè gielo.
Senz'acqua il mare, e fenza ftelle il cielo

Fia innanzi, ch'io non fempre tema, e brami
La fua bell'ombra; e ch' i' non odj, ed ami
L'alta piaga amorofa che mal celo.

Non fpero del mio affanno aver mai pofa
Infin ch' i' mi difoffo, e fnervo, e fpolpo;
O la nemica mia pietà n'aveffe!

Effer può in prima ogn'impoffibil cofa,
Ch'altri che Morte, od ella fani'l colpo
Ch'Amor co' fuoi begli occhi al cor m'impreffe.

SONETTO CLXIII.

Effendo ftato il Petrarca alcuni di fenza veder Laura, levatofi una mattina per tempo, e fentendo il ventolino, gli torna a mente il tempo, quando s'innamorò, ed il vifo di Laura, e le chiome le quali allora erano fparte, ed ora fono chiufe in ifcuffia: le quali furono legami d'Amore stretti; mai poi fi fono fatti ancora più stretti in guifa, che non fi şlegħeranno fe non per Morte.

L'Aura

'Aura ferena che fra verdi fronde

Mormorando a ferir nel volto viemme;
Fammi rifovvenir quand'Amor diemme
'Le prime piaghe, si dolci, e profonde;

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E'l bel vifo veder ch'altri m'afconde;
Che fdegno, o gelófia celato tiemme;
Ele chiome or'avvolte in perle, e'n gemme,
Allora fciolte, e sovra or terfo bionde:

Le quali ella fpargea si dolcemente,

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E raccogliea con sî leggiadri modi,
Che ripenfando ancor trema la mente.

Torfele il tempo, po' in píù faldi nodi;
E ftrinfe'l cor d'un laccio si poffente,
Che Morte fola fia ch'indi lo fnodi,

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