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SONETTO C.

Io ftimo che il Petrarca foffe acconcio in alcun luogo rimoto, dal quale contra fua voglia gli conveniffe partire. Or finge che Invidia già lo fcacciaffe da Valchiufa, perchè non avesse tanto bene di vedere gli occhi di Laura; ed ora lo fcacci di quefto altro luogo, perchè non vegga l'immagine di Laura fattagli da Simone Pittore Sanefe.

Poi che 'l cammin m' è chiuso di mercede;
Per difperata via fon dilungato

Dagli occhi ov' era (i non fo per qual fato)
Riposto il guidardon d' ogni mia fede.
Pafco 'l cor di fofpir, ch'altro non chiede;
E di lagrime vivo, a pianger nato:
Nè di ciò duolmi; perchè in tale stato
E' dolce il pianto più, ch' altri non crede:
E folo ad una immagine m'attegno,

Che fè non Zeufi, o Praffitele, o Fidia,
Ma miglior maftro, e di più alto ingegno.
Qual Scitia m' afficura, o qual Numidia;
S'ancor non fazia del mio efilio indegno,
Così nafcofto mi ritrova Invidia?

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SONETTO CI. Rifpofta.

Lo canterei d' amor sì novamente,
Ch' al duro fianco il dì mille fofpiri
Trarrei per forza, e mille alti defiri
Raccenderei nella gelata mente:

E'l bel vifo vedrei cangiar fovente,

E bagnar gli occhi, e più pietofi giri
Far; come fuol chi degli altrui martíri,
E del fuo error, quando non val, fi

E le rofe vermiglie infra la neve

pente;

Mover dall' ora; e difcovrir l'avorio
Che fa di marmo chi da preffo '1 guarda;
E tutto quel perchè nel viver breve

Non rincrefco a me fteffo, anzi mi glorio
D'effer fervato alla stagion più tarda.

SONETTO CII

Scrive una battaglia di pensieri, che fente dentro del fuo cuore per lo ftato, in che fi trovava. Primă dubitava se foffe Amore, o altra Infermità che lo ftimolaffe; e per efaminazione, che non è nè quella, nè questa, conchiude che pure è Amore.

S'Amor non è; che dunque è quel ch' i' fento?

Ma s' egli è Amor; per Dio, che cofa, e quale?
Se buona; ond' è l'effetto afpro mortale?
Se ria; ond' è si dolce ogni tormento?

S'a mia voglia ardo; ond' è 'l pianto, e'l lamento?
S'a mal mio grado; il lamentar che vale?
O viva morte, o dilettofo male,

Come puoi tanto in me, s'io nol confento?

E s'io 'l confento; a gran torto mi doglio.
Fra sì contrarj venti in frale barca

Mi trovo in alto mar fenza governo,

Sì lieve di faver, d' error sì carca,

Ch'i' medefmo non fo quel ch' io mi voglio;
E tremo a mezza ftate, ardendo il verno.
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SONETTO CIII.

Racconta le cagioni della sua miferia fotto quattro fimilitudini, le quali tutte dice procedere da Laura. Le fimilitudini fono, che egli è come fegno, nel quale feriscono gli ftrali; come Neve al Sole; come Cera al Fuoco; come Nebbia al Vento.

Amor m' ha pofto come fegno a ftrale,

Com' al Sol neve, come cera al foco, E come nebbia al vento; e fon già roco, Donna, mercè chiamando; e voi non cale. Dagli occhi voftri ufcío 1 colpo mortale Contra cui non mi val tempo, nè loco: Da voi fola procede (e parvi un gioco) Il Sole, e 'l foco, e 'l vento, ond'io fon tale. I penfier fon faette, e 'l vifo un Sole;

E'l defir foco; e 'nfieme con queft' arme
Mi punge Amor, m' abbaglia, e mi diftrugge:
E l'angelico canto, e le parole,

Col dolce fpirto ond' io non poffo aitarme,
Son l'aura, innanzi a cui mia vita fugge.

SONETTO CIV.

Scrive lo ftato nel quale fi truova per cagione di Laura, e dice che è incerto fe fia amato, o nò.

P

ace non trovo, e non ho da far guerra;

E temo, e fpero, ed ardo, e fon' un ghiaccio;
E volo fopra'l cielo, e giaccio in terra;

E nulla ftringo, e tutto 'l mondo abbraccio.

2

Tal m' ha in prigion, che non m'apre, nè ferra;
Nè per fuo mi riten, nè fcioglie il laccio;
E non m' ancide Amor', e non mi sferra;
Nè mi vuol vivo, nè mi trae d'impaccio.
Veggio fenz' occhi; e non ho lingua, e grido;
E bramo di perir, e cheggio aita;

Ed ho in odio me fteffo, ed amo altrui:
Pascomi di dolor; piangendo rido;
Egualmente mi fpiace morte, e vita.
In quefto ftato fon, Donna, per vui.

CANZONE XVIII.

Affomiglia sè a qualunque più nuova cofa fia in eftremo clima. Come alla Fenice che nafce in Oriente, ed alla Calamita ch'è nel Mar d'India; a Catoblepas, animale nascente in Oriente; al Fonte del Sole in Mezzo giorno; al Fonte d'Epiro; a' due Fonti dell' Ifole Fortunate; al Fonte di Sorga.

Qual più diverfa, e nova

Cofa fu mai in qualche ftranio clima;
Quella, fe ben fi ftima,

Più mi raffembra; a tal fon giunto, Amore.
Là onde 'l dì ven fore,

Vola un' augel, che fol fenza conforte
Di volontaria morte

Rinafce, e tutto a viver fi rinnova:
Cosi fol fi ritrova

Lo mio voler': e così in fu la cima
De' fuoi alti penfieri al Sol fi volve;
E così fi rifolve;

E così torna al fuo ftato di prima :

Arde, e more, e riprende i nervi fuoi;
E vive poi con la Fenice a prova.
Una pietra è sì ardita

Là per l'Indico mar, che da natura
Tragge a sè il ferro, e 'l fura

Dal legno in guifa, ch' i navigj affonde:
Quefto prov' io fra l'onde

D'amaro pianto; che quel bello fcoglio
Ha col fuo duro orgoglio

Condotta ov' affondar conven mia vita:
Così l'alma ha sfornita

Furando 'l cor, che fu già cofa dura:

E me tenne un, ch' or fon divifo, e sparso;
Un faffo a trar più scarfo

Carne, che ferro, o cruda mia ventura!

Che 'n carne effendo, veggio trarmi a riva
Ad una viva dolce calamita.

Nell' eftremo Occidente

Una fera è, foave, e queta tanto,
Che nulla più: ma pianto,

E doglia, e morte dentro a gli occhi

Molto convene accorta

Effer qual vifta mai ver lei si giri:

Pur che gli occhi non miri,

L'altro puoffi veder fecuramente.

Ma io incauto dolente

porta:

Corro fempre al mio male; e fo ben quanto
N' ho fofferto, e n' afpetto: ma l' ingordo
Voler, ch'è cieco, e fordo,

Si mi trafporta, che 'l bel vifo fanto,
E gli occhi vaghi fien cagion ch' io pera,
Di quefta fera, angelica, innocente,

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