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Io per me prego il mio acerbo dolore,
Non fian da lui le lagrime contese;
E mi fia di fofpir tanto cortefe,
Quanto bifogna a disfogare il core.
Piangan le rime ancor, piangano i versi;
Perchè 'I noftro amorofo Meffer Cino
Novellamente s'è da noi partito,
Pianga Piftoja, e i cittadin perverfi,
Che perdut' hanno si dolce vicino,
E rallegres' il Cielo, ov' elli è gito.

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Quefto Sonetto è proemio del feguente. Nel tempo adunque che il Petrarca era, fe non libero da Amore, almeno non tormentato, ed era lontano dalla vifta di Laura, vide due Amanti fcolorarfi in un punto, e farsi vivi, e morti. Ora Amore gli diffe più volte, che fcrivelle in Rime care, e pregiate quefto atto ficcome fomma lode d'Amore. E perchè il Petrarca pareva che lento fi ingveffe ad obbedirgli, gli minaccia di trattarlo male, fe lo può condurre alla prefenza di Laura. Laonde il Petrarca compofe il feguente Sonetto, del quale quefto è fcufa, e cagione, perchè l' abbia fcritto.

Più volte Amor m'avea già detto: Scrivi,
Scrivi quel che vedefti, in lettre d'oro;
Siccome i miei feguaci difcoloro,
E'n un momento gli fo morti, e vivi.
tempo fu che 'n te fteffo 'l fentivi,
Volgare esempio all'amorofo coro:
Poi di man mi ti tolfe altro lavoro;
Ma già ti raggiuns' io mentre fuggivi:

Un

E s'e' begli occhi ond' io mi ti mostrai,
E là dov' era il mio dolce ridutto,
Quando ti ruppi al cor tanta durezza,
Mi rendon l'arco ch'ogni cofa fpezza;
Forfe non avrai fempre il vifo afciutto:
Ch'i' mi pafco di lagrime; e tu 1 fai.

SONETTO LXXIII.

Rende la ragione, perchè un' Amante alla presenza della perfona amata impallidifca come morto, e goda alcuna volta di tale impallidire.

Quando giugne per gli occhi al cor profondo

"L'immagin donna, ogni altra indi si parte;
E le vertù che l'anima comparte,
Lascian le membra quafi immobil pondo:

E del primo miracolo il fecondo

Nafce talor: che la fcacciata parte
Da sè fteffa fuggendo arriva in parte
Che fa vendetta, e'l fuo efilio giocondo,

Quinci in duo volti un color morto appare:
Perchè 'l vigor che vivi gli moftrava,
Da neffun lato è più là dove stava.

E di quefto in quel dì mi ricordava
Ch'i' vidi duo amanti trasformare,
E far, qual' io mi foglio in vifta fare.

1

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SONETTO LXXIV.

In questo Sonetto non fi duole di non potere narrare le fue pene a Laura, perchè gli occhi fuoi le veggano; ma fi duole che la fua fedeltà non operi in Laura quello, che la fedeltà d'alcuni ha operato nel lor Signore: ficcome di Maria, e di Pietro in CrA fto, ancorachè fofiero indegni d' effere ricevuti per altro.

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Così potefs' io ben chiuder in verfi

I miei penfier, come nel cor li chiudo:
Ch' animo al mondo non fu mai sì crudo,
Ch' i' non faceffi per pietà dolerfi.
Ma voi, occhi beati; ond' io sofferfi

Quel colpo ove non valfe elmo, nè fcudo;
Di for', e dentro mi vedete ignudo;
Benchè 'n lamenti il duol non fi riversi:
Poi che voftro vedere in me rifplende,
Come raggio di Sol traluce in vetro.
Bafti dunque il defio, fenza ch' io dica.
Laffo, non a Maria, non nocque a Pietro
La fede, ch'a me fol tanto è nemica:
E fo, ch' altri che voi neffun m' intende.
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SONETTO LXXV.

Quantunque alcuna volta desperato abbia in odio la speranza, e il fuo defiderio, nondimeno, ricordandofi della bellezza di Laura, muta mente, che è sforzato di feguir Laura, la quale di volontà prefe ad amare, ficcome Adamo di volontà peccò, e tutti i fuoi Descendenti non di volontà, ma sforzati peccano. Rende dunque ragione, perchè seguiti l'amor di Laura con tanti tormenti,

To fon dell' afpettar' omai si vinto,

E della lunga guerra de' fofpiri;

Ch'i'aggio in odio la fpeme, e i defiri,
Ed ogni laccio onde 'l mio cor' è avvinto.

Ma 'I bel vifo leggiadro che dipinto
Porto nel petto, e veggio ove ch'io miri;
Mi sforza: onde ne' primi empj martiri
Pur fon contra mia voglia rifofpinto.

Allor' errai quando l'antica ftrada

Di libertà mi fu precifa, e tolta:

Che mal fi fegue ciò ch'a gli occhi aggrada. Allor corfe al fuo mal libera, e fciolta Of a pofta d'altrui conven che vada L'anima, che peccò fol' una volta.

SONETTO LXXVI

Seguita quefto Sonetto il precedente, avendo detto che aveva perduta la libertà, e che contra fua voglia era sforzato a seguire l'amore di Laura. Pone l'infelicità del fuo ftato fervo, il quale pare tanto più infelice, quanto lo ftato della libertà era più.

bello.

Ahi, bella libertà, come tu m' hai

Partendoti da me moftrato, quale
Era 'l mio ftato quando 'l primo ftrale
Fece la piaga ond'io non guarrò mai bono

Gli occhi invaghiro allor sì de' lor guai,

1

Che 'I fren della ragione ivi non vale;
Perc' hanno a fchifo ogni opera mortale:
Laffo, così da prima gli avvezzai,

Nè mi lece afcoltar chi non ragiona

Della mia morte: che fol del fuo nome
Vo empiendo Faere, che si dolce fuona.

Amor' in altra parte non mi sprona;

Nè i piè fanno altra via, nè le man, come
Lodar fi poffa in carte altra perfona.

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SONETTO LXXVII.

Confola Orfo che, dovendo combattere, per giufto impedimento non potè comparire in campo il dì della Giornata, dicendo che, perchè il corpo fia ritenuto, il cuore però è in campo e così ftima ogn' uno, che per paura non fia reftato di venire, ma per ragionevole cagione.

Orfo, al voftro deftrier fi può ben porre

Un fren, che di fuo corfo indietro il volga; Ma 'l cor chi legherà, che non fi fciolga; Se brama onore, e'l fuo contrario abborre? Non fofpirate: a lui non fi può torre

Suo pregio, perch' a voi l' andar fi tolga;
Che, come fama pubblica divolga,

Egli è già là, che null' altro il precorre.
Bafti che fi ritrove in mezzo 1 campo
Al deftinato dì, fotto quell' arme

Che gli dà il tempo, Amor, virtute, e 'l fangue; Gridando: D'un gentil defire avvampo

Col fignor mio, che non può feguitarme;
E del non effer qui fi ftrugge e langue.

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