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SONETTO LXII.

Gli stà si fisa nel cuor e negli occhi, ch' e' giunge talvolta a crederla viva.

Tornami a mente, anzi v'è dentro, quella,

Ch'indi per Lete esser non può sbandita,
Qual io la vidi in su l'età fiorita
Tutta accesa de' raggi di sua stella.

Sì nel mio primo occorso onesta e bella Veggiola in se raccolta, e sì romita, Ch'i'grido: Ell'è ben dessa; ancor è in vita : E 'n don le cheggio sua dolce favella.

Talor risponde, e talor non fa motto.

I', com'uom ch' erra, e poi più dritto estima,
Dico alla mente mia: Tu se 'ngannata:

Sai, che 'n mille trecento quarant' otto
Il di sesto d' Aprile, in l'ora prima
Del corpo uscio quell' anima beata.

SONETTO LXIII.

Natura, oltr' al costume, riunì in lei ogni bellezza, ma fecela tosto sparire.

Questo

uesto nostro caduco e fragil bene,

Ch'è vento ed ombra, ed ha nome beltate, Non fu giammai, se non in questa etate, Tutto in un corpo; e ciò fu per mie pene.

Che natura non vol, nè si convene,

Per far ricco un, por gli altri in povertate: Or versò in una ogni sua largitate: Perdonimi qual è bella, o si tene.

Non fu simil bellezza antica, o nova;
Nè sarà, credo: ma fu sì coverta,
Ch'appena se n'accorse il mondo errante.

Tosto disparve: onde 'l cangiar mi giova

La

poca vista a me dal Cielo offerta, Sol per piacer alle sue luci sante.

SONETTO LXIV.

Disingannato dell' amor suo di quaggiù, rivolgesi ad amarla nel Cielo.

O tempo, o ciel volubil, che, fuggendo,

Inganni i ciechi e miseri mortali;
O di veloci più che vento e strali,
Or ab esperto vostre frodi intendo:

Ma scuso voi, e me stesso riprendo:
Che Natura a volar v'aperse l' ali;

A me diede occhi: ed io pur ne' miei mali
Li tenni ; onde
onde vergogna e dolor prendo.

E sarebbe ora, ed è passata omai,
Da rivoltarli in più secura parte,

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Nè dal tuo giogo, Amor, l'alma si parte,
Ma dal suo mal; con che studio, tu 'l sai:
Non a caso è virtute, anzi è bell'arte.

SONETTO LXV.

Ben a ragione e' teneasi felice in amarla,
se Dio se la tolse come cosa sua.

Quel,

uel, che d'odore, e di color vincea

L'odorifero e lucido Oriente,

Frutti, fiori, erbe, e frondi; onde 'l Ponente D'ogni rara eccellenzia il pregio avea,

Dolce mio Lauro, ov'abitar solea
Ogni bellezza, ogni virtude ardente,
Vedeva alla sua ombra onestamente
Il mio signor sedersi, e la mia Dea.

Ancor io il nido di pensieri eletti

Posi in quell' alma pianta ; e 'n foco, e 'n gielo Tremando, ardendo, assai felice fui.

Pieno era 'l mondo de' suoi onor perfetti,
Allor che Dio per adornarne il Cielo,
La si ritolse: e cosa era da lui.

SONETTO LXVI.

Ei sol, che la piange, e 'l Cielo, che la possede,

la conobbero mentre visse.

Lasciato hai, Morte, senza Sole il mondo

Oscuro e freddo; Amor cieco ed inerme;
Leggiadria ignuda; le bellezze inferme;
Me sconsolato, ed a me grave pondo;

Cortesia in bando, ed onestate in fondo:
Dogliom' io sol, nè sol ho da dolerme;
Che svelt' hai di virtute il chiaro germe.
Spento il primo valor : qual fia il secondo?

Pianger l'aer, e la terra, e 'l mar devrebbe

L'uman legnaggio, che senz' ella, è quasi
Senza fior prato, o senza gemma anello .

Non la conobbe il mondo mentre l'ebbe:
Conobbil' io, ch' a pianger qui rimasi ;
E'l Ciel, che del mio pianto or si fa bello.

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