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SONETTO XXXIV.

Levossi col pensiero al Cielo. La vide, l'udì, e, beato, là quasi rimase.

Levommi il mio pensier in parte, ov'era

Quella, ch'io cerco, e non ritrovo in terra:
Ivi fra lor, che 'l terzo cerchio serra,
La rividi più bella, e meno altera.

Per man mi prese, e disse: in questa spera
Sarai ancor meco, se 'l desir non erra:
I' son colei che ti diè tanta guerra,
E compie' mia giornata innanzi sera:

Mio ben non cape in intelletto umano:
Te solo aspetto; e quel, che tanto amasti,
E laggiuso è rimaso, il mio bel velo.

Deh perchè tacque, ed allargò la mano? Ch' al suon de' detti sì pietosi e casti Poco mancò, ch'io non rimasi in Cielo.

SONETTO XXXV.

Sfoga il suo dolore con tutti que', che furono testimonj della sua passata felicità.

Amor,

mor, che meco al buon tempo ti stavi Fra queste rive a' pensier nostri amiche;

E

per saldar le ragion nostre antiche,

Meco, e col fiume ragionando andavi;

Fior, frondi, erbe, ombre, antri, onde, aure soavi; Valli chiuse, alti colli, e piagge apriche;

Porto dell' amorose mie fatiche,

Delle fortune mie tante, e sì gravi:

O vaghi abitator de' verdi boschi;

O Ninfe; e voi, che 'l fresco erboso fondo
Del liquido cristallo alberga e pasce:

I di miei fur si chiari; or son sì foschi,
Come Morte, che 'l fa. Così nel mondo
Sua ventura ha ciascun dal dì, che nasce.

SONETTO XXXVI.

S'ella non fosse morta sì giovane, e'avria cantato. più degnamente le lodi di lei.

Mentre che 'l cor dagli amorosi vermi
Fu consumato, e 'n fiamma amorosa arse;
Di vaga fera le vestigia sparse
Cercai per poggi solitarj, ed ermi;

Ed ebbi ardir, cantando, di dolermi
D' Amor, di lei, che sì dura m’

apparse:
Ma l'ingegno, e le rime erano scarse
In quella etate a' pensier novi, e'nfermi.

Quel foco è morto, e 'l copre un picciol marmo:
Che se col tempo fosse ito avanzando,
Come già in altri, infino alla vecchiezza;

Di rime armato, ond'oggi mi disarmo,
Con stil canuto avrei fatto, parlando,
Romper le pietre, e pianger di dolcezza.

Tom. II.

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SONETTO XXXVII.

La prega, che almen di lassù gli rivolga tranquillo e pietoso lo sguardo.

Anima bella, da quel nodo sciolta,

Che più bel mai non seppe ordir Natura;
Pon dal ciel mente alla mia vita oscura
Da si lieti pensieri a pianger volta.

La falsa opinion dal cor s'è tolta,

Che mi fece alcun tempo acerba e dura
Tua dolce vista: omai tutta secura

Volgi a me gli occhi, e i miei sospiri ascolta.

Mira'l gran sasso donde Sorga nasce;

E vedravi un, che sol tra l'erbe e l'acque,
Di tua memoria, e di dolor si pasce.

Ove giace'l tuo albergo, e dove nacque
Il nostro amor, vo', ch'abbandoni e lasce,
Per non veder ne' tuoi quel, ch'a te spiacque.

SONETTO XXXVIII.

Dolente, la cerca; e non trovandola, conchiude esser ella dunque salita al Cielo.

Quel Sol, che mi mostrava il cammin destro

Di gire al Ciel con gloriosi passi ;

Tornando al sommo Sole, in pochi sassi Chiuse 'l mio lume, e 'l suo carcer terrestro:

Ond' io son fatto un animal silvestro,

Che co' piè vaghi, solitarj, e lassi

Porto 'l cor grave, e gli occhi umidi e bassi Al mondo, ch'è per me un deserto alpestro.

Così vo ricercando ogni contrada

Ov'io la vidi; e sol tu, che m'affligi,
Amor, vien meco, e mostrimi, ond' io vada.

Lei non trov❜10; ma suoi santi vestigi,
Tutti rivolti alla superna strada,
Veggio lunge da' laghi Averni e Stigi.

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