CANZONE VI.. Quando uando il söave mio fido conforto, Et un di lauro trae del suo bel seno ; Ciel empireo, e di quelle sante parti Che di questa miseria sia partita, Che piacer ti devría se tu m' amasti Non fosse destinata al suo ben fare? C' altamente vivesti quì fra noi, E che subito al Ciel volasti poi. Ma io, che debbo altro che pianger sempre, E queste dolci tue fallaci ciance E seguir me, s'è ver che tanto m' ami, Tu la cui penna tanto l' una onora. Palma è vittoria; ed io, giovane ancora, Mercè di quel Signor che mi diè forza. A lui ti volgi, a lui chiedi soccorso; Son questi i capei biondi, e l' aureo nodo M' è dato a parer tale; ed ancor quella A te più cara sì selvaggia e pia, I' piango: ed ella il volto Con le sue man m' asciuga; e poi sospira Con parole che i sassi romper ponno: CANZONE VIL Quell' antiquo mio dolce empio signore, Fatto citar dinanzi alla reina Che la parte divina Tien di nostra natura, e 'n cima sede; Ivi, com' oro che nel foco affina, Mi rappresento carco di dolore, Di paura e d'orrore; Quasi uom che teme morte, e ragion chiede: E 'ncomincio: Madonna, il manco piede, Giovinetto, pos' io nel costui regno: Ond' altro ch' ira e sdegno Non ebbi mai; e tanti e sì diversi C' al fine vinta fu quell'infinitas Mia pazienzia, e 'n odio ebbi la vita. Per servir questo lusinghier crudele! Che stringer possa 'l mio infelice stato, Tante e sì gravi e sì giuste querele? O poco mel, molto aloè con fele! In quanto amaro à la mia vita avvezza La qual m' attrasse all' amorosa schiera! Disposto a sollevarmi alto da terra: E' mi tolse di pace, e pose in guerra. Questi m'à fatto men amare Dio, TAYLOR Ch'i' non devea; e men curar me stesso 050 Egualmente in non cale ogni pensero. - Sperai riposo al suo giogo aspro e fero. Che vo cangiando 'l pelo, Nè cangiar posso l' ostinata voglia; Di libertà questo crudel ch' i' accuso, |