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stinto suo amico, facendo portare effigiate e colorate le belle opere di lui. Nel che potrà ognuno ammirare una eccellenza d'ingegno poetico del signor marchese di Montrone; che quel che ogni altro avrebbe raccontato, egli ha saputo dipingere. E non era certo cosa da aspettare da chicchessia il ridurre alla unità di continua storia amorosa le canzoni che sparsamente a caso dettò il Savioli; e ciascuna parte di questa istoria animare e muovere, di qualità che gli amorosi eventi si compiano, per così dire, su gli occhi di chi al dipinto Peplo riguarda, o ascolta il Poeta che ne disegna le figure. La Storia bolognese, e gli Annali di Tacito se con minore difficoltà vennero nel campo del Peplo, vi compaiono con maggiore magnificenza. A questa così bene eletta e così ben variata materia si accompagna lo stile puro e lucente e dolce, ora pietoso, or grave, or dilicato, or forte, che sempre seguita e illumina l'argomento; come nelle egregie statue e pitture si vedono ornate e mostrate dal vestito le membra. Che se nelle arti del pennello e dello scarpello vediamo ora l'Italia rivolta con ogni studio alla espressione del vero naturale, e alla imitazione di quegli antichi maestri che lo sentirono e lo mostrarono; perchè non si ha da sperare che nelle arti similmente dello stile riconoscano gl' Italiani la via che male abbandonarono, e per la quale sola a vera e durevole fam si perviene? Intanto questo nobile cenno che ne ha fatto il signor di Montrone sarà caro a tutti i buoni ingegni che negli studi non si lasciano prendere alle false imagini del bello, ed amano il nome Italiano. Del quale vedendo noi altamente acceso il generoso animo del signor marchese di Montrone, vogliamo pregarlo che non gli basti questa lode di poetico valore e di amicizia, che simile ad Orazio e Ovidio e Mosco nel compianger Quintilio e Tibullo e Bione si è acquistata; ma di cose ancora maggiori, che ben può, soccorra alla gloria delle lettere italiane:

Pochi compagni avrai per questa via;
Tanto ti prego più, gentile spirto,
Non lassar la magnanima tua impresa.

SULLO STILE POETICO

DEL MARCHESE DI MONTRONE

DISCORSO NELLA PRIMAVERA DEL MDCCCVII.

BOLOGNA.

PIETRO GIORDANI

AL SUO PIETRO BRIGHENTI.

Molto e lungamente ho desiderato, mio carissimo Brighenti, darti qualche segno dell' amore e della riverenza che ti porto, per tante virtù che si veggono in te accolte; e massimamente per quella singolar fede nell'amicizia, di che sei esempio a qualunque età ammirabile, alla nostra quasi incredibile. E ben era io dolente che nè la fortuna në l'ingegno mi desse alcun modo per mostrarmi grato a te, al quale pur di tanto son debitore di quanto non volli mai obligarmi a nessuno. Or poi che il marchese di Montrone lasciando publicare alquante sue poesie, mi concede ch'io usi intorno ad esse quell' arbitrio che l' uom può prendere nelle cose di un suo amicissimo, ho voluto intitolarle del tuo nome. E son certo che quanto piacerà al Montrone che si faccia con ciò manifesta la benevolenza scambievole fra voi due; altrettanto gradirai tu il dono di questo libro; perchè opera è di tale che ambidue onoriamo ed amiamo singolarmente; come ornato di bellissimo ingegno, di ottimi studi, e di costumi nobilissimi. La quale gravità e dignità di pensieri e di vita pare che il nostro amico abbia consigliatamente voluto esprimere anche nella forma delle sue composizioni: tenendosi a quell'antico stile,

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SULLO STILE POETICO DEL M. DI MONTRONE che a pochi è in questi tempi gradito; dai più è ributtato lungi non pur dalla imitazione ma dalla memoria. Quindi non mi assicuro che queste poesie debbano universalmente piacere e non facendo io professione di poetica nè di veruna sorta di lettere, non attento di giudicarne. Bensì considerando con semplice discorso la maniera di poetare che all'amico è piaciuta, stimo che sulla elezione dello stile ei non s'inganni; e che abbia savissimo consiglio chiunque prende a operare le buone arti, se ognora tiene l'occhio all'antichità. Nè a questo credere mi conduce superstizione vana d'animo debole, e nimico della fatica o del pericolo di qualunque novità; ma documenti di esperienza e di ragione mi persuadono.

Primieramente mi sembra che ogni amatore degli antichi modi nelle arti dia indizio di spiriti elevati, e avidi e capaci d'ogni grandezza. Perchè i tempi nei quali ebbero vigore le arti, furono in ogni genere di belle e grandi opere felicissimi. Vedi que' secoli ne' quali fioriva per l'Italia una sincera e nobile eloquenza, se erano pieni d' uomini forti e generosi; che fecero in Asia e in Affrica tanti gloriosi conquisti, diedero civiltà a tanti rozzi paesi di Europa, recarono da lontane regioni ricchissimi commerci, rizzarono per le nostre contrade maestosi e saldissimi edifizi, trovarono maravigliosi veri nelle scienze naturali e considera come quel vigore e calor d'animo che li faceva a navigare a combattere a trafficare a edificare a speculare si arditi e felici, era dunque il medesimo principio che nelle fantasie moveva sì belle scritture. Perocchè in una età ricca di grandi e bene disciplinate menti, quella quasi forza vitale in tutte le diverse opere o di mano o d' ingegno ugualmente si mostra. Vedi poi qual è fatta questa Italia a'dì nostri chi ci obbedisce o chi ci teme? quali sono le nostre ricchezze? dove l'armi? dove l'industria? Delle fabbriche e delle scritture meglio è tacere; e per men vergogna mi consolo che ben poco appresso noi dureranno. Pertanto. io amerò sempre chi ponga amore all' opere de' nostri maggiori; chè mostra sentimento di quella loro grandezza, e mostra che in petto accolga qualche favilla di quel valore. Giord. Opere.

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E dico in secondo luogo che quanto fa onore a sè, tanto reca benefizio alle arti medesime. Ogni volta che io mi ricordo quella sentenza di Nicolò Machiavelli, che a voler conservare un regno una repubblica o una setta è necessario ritirarli spesso verso i suoi principii; parmi vedere ch'ella sia vera ed osservabile molto più nell' arti imitatrici. Le quali per la varia mobilità della imaginativa (chè è tutto il loro fondamento) sono di natura incostanti: e non essendo circoscritte con leggi così evidentemente, come dalla matematica e dalla fisica le hanno definite i mestieri de'meccanici, sono perciò tanto più sommosse a trascorrere e leggieramente dichinano al peggio, se non le richiami quegli ordini che le alzarono a perfezione. E per verità elle cominciano appunto dal non intendere ad altro che al primo oggetto loro, cioè rappresentare il naturale qual è: e dopo molto provare lo raggiungono. E questo piace e ha lode. Ma gl' ingegni umani, come vogliosi di cose nuove, si accorgono che non tutte le parti del naturale sono verso di sè belle, nè tutte belle ugualmente: e fanno ragione che scegliendo dalla natura le bellezze sparse, e accogliendole in uno con proporzione e convenienza, si possa avere un bello naturale più eletto e compito e piacente che il bello della più volgare natura. E questo è veramente migliore: ma qui il buono finisce; di qua si comincia a trasandare nel reo. Perchè il piacere e la lode delle belle opere viene appunto dal vedere vivamente rappresentato il naturale, con quell'apparente facilità che tanto ha travagliato, e sembra scherzare: della quale gl'ingegni grossi ed imperiti non conoscono il valore; e perciò prestamente se ne saziano; e stimano vile cosa quello che presumono potersi fare da ognuno. Ma negli artefici l'appetito continuo di gloria gli stimola a novità: i quali volendo eccitare la maraviglia, e destare col fracasso coloro che già per la musica si addormentano, vanno cercando fantasie inusitate; e delle più strane più si tengono beati: colle quali non solamente vestono (a loro dire) e adorano il naturale, ma sì lo cuoprono, e bene spesso lo sformano lo storpiano lo guastano; finalmente producono que' mostri, che sono delizia degli scioc

chi, e disperazione dei savi. Or che diremo che tali mostri si scherniscono e si detestano se nacquero nel secolo diciassettesimo, se sorgono nel nostro gli accarezziamo? Oh quanta pietà, se non dispetto, di questo povero secolo dovranno avere l'età venture? E provvegga Dio ben presto ch'elle non ci abbiano ad abominare per colpevoli che a loro poi manchi ogni facoltà di usare il buono idioma italiano; il quale per noi si è lasciato si sformatamente corrompere. Poichè tutte le arti, come gli stati e le sette, per interna corruzione si sfanno e periscono. Della qual rovina ingiustamente poi s'incolpano le invasioni dei barbari. I quali se non trovassero gli uomini impediti dal lusso, ravviluppati nell' ignoranza, infeminiti dei costumi, colle armi disordinate, e le leggi confuse, non basterebbono a porre il giogo alle nazioni civili: ma quando ancora l' impeto di quelli potesse prevalere, farebbero alterazione dello stato, non delle usanze. Come alla età de' nostri bisavoli si vide nella Cina occupata dai Tartari, che il barbaro vincitore si accomodò alla civiltà de' vinti. E quando i Romani tolsero la libertà alla Grecia, non vi spensero le arti nè la filosofia; ma andarono alla scuola de loro soggetti. Più tardi poi non portarono i Turchi in quel paese colle armi la ignoranza ; ma vi trovarono oziosissimi ignoranti, già preparati alla schiavitù. E tali furono i nostri maggiori al sopravvenire de' popoli di settentrione; i quali erano di tanto men barbari dei tralignati Romani, quanto almeno sapevano reggere con sufficiente disciplina le armi. Ora que' vizi che sogliono alle buone arti essere mortali, si veggono in questa dello scrivere avere già operato fra noi tali effetti, che mai ella non fu a condizione peggiore, nè sì vicino a perdersi. Perocchè il secolo diciassettesimo, quanto abbia sì mala riputazione, conta pure scrittori gravissimi, Galileo, il Pallavicini, il Bartoli, il Segneri, il Redi, il Capecelatro, Giambattista Doni; nei quali con poche macchie risplendono molte insigni virtù. E ch'io a costoro non aggiunga Leonardo Capua e Filippo Baldinucci, n'è cagione solamente che alla. purità non seppero agguagliare la franchezza. La turba poi senza nome, fra gli strani concetti, e le gonfiaggini ed acu

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