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primissimo nel volgare, non riconosciuto primo nel latino! Oh perchè almeno non era rimasto « fermo a la spelunca Là dove Apollo diventò profeta? »... (n. 166).

Fiorenza avria forse oggi il suo poeta,

Non pur Verona e Mantoa et Arunca!

Così dunque gli accadeva per la gloria poetica quello che già gli era accaduto per l'amore della donna o di Dio: ch'ei da ultimo, dopo tanta iattanza ed entusiasmo, finiva con l'essere scontentissimo di sè stesso.

Così sventura over colpa mi priva
D'ogni buon frutto.

Ed è questo forse il lato più singolare del carattere del Petrarca. Facile alle impressioni, ricco d' immaginazione, sognava più che non sapesse volere, e s'accasciava quando era costretto ad accorgersi d'aver perseguito un fantasma. Non aveva le gagliarde doti dell'animo di Dante, ma nemmeno la simpatica debolezza che fa del Tasso, vittima della sua stessa immaginativa, un personaggio altamente poetico. Il Petrarca, meglio che altrove, ritrae sè medesimo nella angosciosa canzone che comincia (n. 264):

I'vo pensando, e nel penser m'assale
Una pietà sì forte di me stesso,

Che mi conduce spesso

Ad altro lagrimar ch'i' non soleva;

e che finisce :

Chè co la morte a lato,

Cerco del viver mio novo consiglio,

E veggio 'l meglio et al peggior m'appiglio.

XI.

Al Canzoniere petrarchesco è avvenuto quel che alla Commedia non era possibile avvenisse: che i chiosatori cioè, ogni tanto, han reputato loro dovere di dichiararci se quel componimento fosse dei più belli o dei brutti. Naturalmente, « quot homines, tot sententiae: suus cuique

mos ». E alle ammirazioni sperticate dei quattrocentisti e dei cinquecentisti, tennero dietro i motteggi, non sempre infondati e spesso arguti, del Tassoni; e a questi le repliche, spesso assennate ma non sempre spregiudicate, del Muratori.

Sebastiano Fausto da Longiano (Venezia, 1532), ad esempio, ne andava in solluchero dinanzi al verso (n. 303, 5):

Fior', frondi, erbe, ombre, antri, onde, aure soavi.

E chiosava: «Questo è 'l più alto verso, più sonoro e più pieno che si legga tra' moderni e antichi ». Il Tassoni, il quale, di quell'altro sonetto che comincia (n. 148) Non Tesin, Po, Varo, Arno, Adige e Tebro, e che, dopo un primo quadernario di fiumi, ripiglia nel secondo Non edra, abete, pin, faggio o genebro, aveva sentenziato: << questa leggenda de' fiumi fa, per mio avviso, poco onore al poeta » —, ora tace. Invece il Muratori osserva : « Il quinto verso vien lodato per la sua gravità, in tanto che uno de' comentatori, per esaltarlo forte, dice che è gravissimo fuor di modo. Forse costui più degli altri, senza avvedersene, ha colpito il punto, perchè così fuor di misura è duro ed aspro questo verso, che a farlo muovere ci vogliono gli àrgani; per nulla dire di tanta asprezza in mezzo ad altre sì soavi ed amene cose, che pare un suono di ruote ben addentate e stridenti in mezzo al concerto di dolci violini. Tu nondimeno non lasciare d'averlo caro, sì per amore della varietà, e sì perchè il P. ha fatto il primo senza fare il secondo. Per leggerlo, leva via tutte le vocali ultime, e fa le posature della voce di tre in tre sillabe; e nota eziandio che il P. con quell'aure soovi ha temperata sul fine tanta asprezza ». E noi ci sentiremmo subito propensi a consentire in un giudizio così sensato; se il critico stesso non ci costringesse a diffidare di lui, quando, a proposito di questo medesimo sonetto, salta sù a dichiarare: « Le Grazie hanno in qualche guisa assistito al P. per formare questo sonetto, che veramente ha di bei pregi e molta amenità, e mi piacerebbe al pari de' più belli, se avesse i due ultimi versi della chiusa più spiritosi e più leggiadri ». L'ultima calunniata terzina suona così:

I di miei fûr sì chiari, or son sì foschi
Come Morte che 'l fa. Così nel mondo
Sua ventura ha ciascun dal dì che nasce!

Non so se la sentenza abbia dello spiritoso: certo, era di quelle che travagliavano, con la loro inesorabilità, l'animo del poeta. Il quale anche altrove (n. 187) esclamerà: << Così son le sue sorti a ciascun fisse! ». E quanto alla leggiadria, credo ne debba avere abbastanza, se nientemeno che il Leopardi, nella chiusa dell'armoniosissimo suo Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, ha voluto quasi far risentire la cadenza appunto di questo sonetto. Forse in qual forma, in quale

Stato che sia, dentro covile o cuna,
È funesto a chi nasce il dì natale.

Un esempio ancora. Il Petrarca adopera con una certa larghezza la voce ignudo; e il Tassoni se la gode quando può dimostrargli d'averla usata equivocamente. Nel son. Da' più belli occhi... (n. 348), il poeta si duole d'esser rimasto << ignudo e cieco » quaggiù, mentre «< il re celeste » ha diletto degli occhi, del viso, dei capelli, delle mani, delle braccia di Laura. E il critico: «La voce cieco risponde alle cose contenute nel primo quartetto; ma la voce ignudo non so a che si risponda, poichè mani, braccia e piedi non sono cose atte a lasciare ignudo altri che loro». Nel son. 338, il poeta si lamenta che Morte abbia lasciato << Amor cieco et inerme, Leggiadria ignuda ». E il critico: << Amore fu sempre cieco, e non si dice nulla a dire ch'ei resti tale per la morte di chi che sia, e se Tibullo disse Phoebe, modo in terris erret inermis Amor, non vi rimescolò cecità...; ma lasciare ignuda la Leggiadria, non è farle alcun danno, poichè quanto è più ignuda, tanto più le sue vaghezze ella scuopre». Il Muratori non trova nulla a ridire circa l'ignudo, nè nell'un caso nè nell'altro; solo, non si sente disposto a dar ragione al suo concittadino, « felice sì, ma non men bizzarro ingegno » (par di sentire il Don Ferrante manzoniano quando giudica il Machiavelli « mariolo sì, ma profondo »), « che vuol cieco Amore per tutti i conti, quando sicuramente si può

rappresentar ben occhiuto, e tale il Petrarca ci rappresentò il suo ». Bene però si accorda con lui nel censurare il primo terzetto, che suona:

Pianger l'aer e la terra e 'l mar devrebbe

L'uman legnaggio, che, senz'ella, è quasi
Senza fior prato o senza gemma anello.

Il più vecchio dei due Modenesi v'aveva trascritto a lato l'oraziano Versus inopes rerum, nugaeque canorae; e il più giovane aggiunge « parergli più tosto fredde che altro quelle comparazioni del prato e dell'anello ».

In verità, a noi tutte così fatte logomachie sembrano oziose e ingombranti in un commento, che dev'essere spiccio se vuol riuscire gradito ed utile. La frase ignudo e cieco, come l'altra umile e piana, non si può scindere, e vuol dire, tutti lo intendiamo, privato d'ogni bene e perfin della luce. Non è se non per sottigliezza rettorica o per ricercata bizzarria, che si possa voler riferito l'ignudo alle cose enumerate in un quartetto e il cieco a quelle dell'altro; o che non si voglia capire che la cecità attribuita qui all'Amore ha un valore diverso da quella riconosciutagli dai poeti latini, e che la nudità della Leggiadria non ha nulla di comune con quella di Frine, « tam multis facta beata viris ». Sottigliezze e bizzarrie grossolane, le quali giovano solo ad annebbiare il testo, come una lente da miope messa sul naso d'un presbite. La Musa, ammoniva il Parini, « orecchio ama placato, e mente arguta e cor gentile »; e abborrisce dalle chiose così dei Don Ferranti come delle Donne Prassedi. Non sarebbe davvero arduo far ridere alle spalle d'un poeta che, dopo d'aver rappresentato sè stesso quale un orbo, chiuda poi gli occhi; ma i lettori riderebbero subito del critico, quando venissero a sapere che quel poeta è il Leopardi e i versi questi del Primo amore:

Orbo rimaso allor, mi rannicchiai

Palpitando nel letto, e, chiusi gli occhi,
Strinsi il cor con la mano, e sospirai.

Quei due sonetti petrarcheschi a noi possono piacere

molto o poco; ma le ragioni della nostra impressione sfavorevole o del nostro gradimento son da ricercare altrove che in simili quisquilie. Nessuno di noi, forse, si sentirebbe propenso a consentire nella sentenza del cinquecentista Silvano da Venafro (Napoli, 1533), il quale del son. Lasciato hai, Morte.... diceva: « è tanto maraviglioso che non sarà mai persona che cerchi intenderlo, che non ne resti con meraviglia grandissima ». Ma tutti, credo, conveniamo che a buon conto il fiore di codesta qualsiasi aiuola o la gemma di codesto qualsiasi anello sia proprio quella comparazione, « che, senz' ella, è quasi Senza fior prato o senza gemma anello », la quale l'ottimo Muratori trovava fredda o insipida!

E circa l'altro son., Da' più belli occhi..., a noi riesce indifferente così l'osservazione del Tassoni, « Cose comunissime dette nuovamente, e con grazia », come quella del Muratori, << Sempre vario, sempre nuovo il nostro P. nell'entrare dei sonetti ». Al lettore sarebbe stato più accetto, in ogni caso, il critico che gli avesse fatto riflettere che quei belli occhi e quel chiaro viso e quei bei capelli e quel dolce parlare e quel dolce riso e quelle mani e quelle braccia conquistatrici e quei piedi snelli e quella persona fatta in paradiso non ci commuovono nè ci appagano, perchè non ci dicono nè significano nulla di preciso o di caratteristico. Ogn'innamorato trova belli gli occhi e i capelli, e dolce il riso della sua donna, o che quelli siano celesti o scuri, neri o biondi, o che questo sia leggermente accennato ovvero scoppiettante e sonoro. L'oraziana Làlage dulce ridentem, dulce loquentem, o la Lesbia catulliana dulce ridentem, e la Beatrice « quand' un poco sorride », non si distinguono in ciò da Laura. La quale invece assume una sua propria fisonomia, e conquista ed esalta anche noi, quando passa, luminosa visione, « le bionde trecce sopra 'l collo sciolte », o quando « soavemente tra 'l bel nero e 'l bianco » essa volge « il lume in cui Amor si trastulla », o quando modula nel suo « dolce idioma >> quel cantar che nell'anima si sente ». Il poeta oramai è stanco in questo tardivo sonetto ei non la rivede, la ricorda. Pensoso dell'oltretomba che teme vicino, ei trasforma,

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